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In Libano gridano al complotto per la caduta del tycoon di Nissan Ghosn

Rolla Scolari

Il presidente e amministratore delegato di Nissan e Renault era stato arrestato per illeciti finanziari e frode il 19 novembre, e licenziato dai giapponesi (ma non dai francesi)

Milano. La versione libanese dell’American Dream si chiama Carlos Ghosn, e al momento è in piena crisi. Il magnate con passaporti libanese, brasiliano e francese è detenuto nel penitenziario di Kosuge, a Tokyo, da quasi un mese. Il presidente e amministratore delegato di Nissan e Renault, uno degli uomini più potenti dell’industria automobilistica mondiale, è stato arrestato per illeciti finanziari e frode il 19 novembre, e licenziato dai giapponesi (ma non dai francesi). E’ stato incriminato il 10 dicembre con l’accusa di non aver dichiarato interamente i compensi ricevuti da Nissan tra il 2010 e il 2015. E ancora: alti dirigenti della compagnia nipponica nei mesi scorsi hanno effettuato un’inchiesta interna a sua insaputa. Avrebbero scoperto, rivela il Wall Street Journal, che proprietà immobiliari a suo nome a Beirut, Rio de Janeiro e Parigi sarebbero state acquistate da Nissan.

 

Soltanto una settimana fa si era parlato di una possibile scarcerazione di Ghosn su cauzione. Poi è scattato un terzo mandato d’arresto, dopo i primi due per omissioni fiscali. Fonti interne a Nissan hanno fatto emergere i dettagli della nuova accusa: uso di fondi della compagnia per pagare un uomo d’affari saudita – un tal Khaled al Juffali – che lo avrebbe aiutato a uscire da un cattivo investimento finanziario, costatogli 16,6 milioni di dollari nel 2008. L’azienda di al Juffali tra il 2009 e il 2012 avrebbe ricevuto 14,7 milioni di dollari, riconducibili a fondi legati a Nissan. Dopo le nuove accuse, Ghosn rimarrà in carcere fino al primo gennaio.

Così, da quasi quattro settimane i titoli dei giornali di tutto il mondo suggeriscono una lettura à la Francis Scott Fitzgerald: “The Fall of the House of Ghosn” (Wall Street Journal), “La chute du taikun” (Le Point). Eppure, se quella di Ghosn è la storia del crollo rovinoso di un imperatore dell’automobile, c’è un luogo dove il magnate resta non soltanto un simbolo, ma un vero e proprio eroe.

In Libano, paese dalle mille fedi e confessioni, sai di essere in un villaggio druso, sciita, sunnita, cristiano ortodosso o maronita a seconda delle gigantografie dei politici appese ai pali della luce. L’arte del cartellone non è soltanto legata alla politica. Con il prolungarsi della detenzione di Ghosn, sono apparsi a Beirut manifesti enormi con il volto corrucciato del magnate dalle folte sopracciglia tra i colori della bandiera libanese, e la scritta: “Siamo tutti Carlos Ghosn”. Una petizione in suo favore lanciata a fine novembre, a metà dicembre aveva già raccolto ventimila firme. Politici di ogni partito e confessione gridano al complotto antilibanese. L’ambasciatore libanese in Giappone gli ha portato in carcere un materasso. Il ministro dell’Interno Nohad Machnouk ha sentenziato: “Siamo fieri di lui, del suo successo. In questa difficile prova, la fenice libanese non sarà bruciata dal sole giapponese”. E basta uno sguardo ai social media libanesi per capire come il sostegno al magnate sia trasversale nel piccolo paese levantino. E come sia passata la versione di un complotto internazionale a danni del buon nome degli industriosi levantini, che nonostante conflitti settari, influenze straniere e guerra civile sono riusciti a prosperare, in patria e all’estero.

 

Il francobollo del 2017

Ghosn rappresenta il simbolo dell’ingegno della diaspora libanese. Aveva 13 anni il nonno Beshara quando con una valigia soltanto emigrò verso l’interno del Brasile. Pochi anni dopo, era già attivo nel commercio della gomma. La madre, libanese della diaspora africana, era cresciuta in Nigeria. A sei anni, la famiglia ha mandato il figlio a studiare in Libano, dai gesuiti di Jumhour, prestigiosa scuola delle élite locai, come prestigiose sono l’École polytechnique e l’École des mines che Carlos ha frequentato a Parigi, e che lo hanno portato dritto a Michelin e Renault.

 

“Ho avuto la fortuna di essermi confrontato con tre culture diverse. Sono nato in Brasile, ho studiato in Libano e continuato la mia formazione in Francia. L’istruzione che ho ricevuto in Libano ha senza dubbio avuto un impatto positivo sulla mia carriera”, ha detto Ghosn in ottobre. Sono parole che piacciono ai libanesi, che gli hanno dedicato un francobollo nel 2017, che apprezzano i suoi frequenti ritorni in patria, dove il magnate investe: nel gruppo finanziario Saradar e nella viticoltura con Ixsir. Molti vorrebbero Ghosn, un cristiano, perfino presidente. Il sistema politico confessionale libanese prevede un premier sunnita, un capo del Parlamento sciita e un presidente cristiano. E nel Libano provato dalla crisi dei rifugiati siriani, 1,4 milioni su una popolazione di 6 milioni, e dagli eterni conflitti politici e settari, una sua discesa in politica, da lui esclusa, accenderebbe la speranza di una agognata ripresa economica.

 

Per il Wall Street Journal ci sarebbe altro dietro l’improvvisa caduta del tycoon: il timore che fosse lo strumento di un lento rilevamento di Nissan da parte di Renault. L’arresto fa scricchiolare una delle alleanze più potenti dell’industria automobilistica, quel patto da lui stesso creato tra Renault, Nissan e Mitsubishi. Proprio su questo, l’avvocato di famiglia va all’attacco: si tratterebbe, dice, di una faida tra le due case automobilistiche, a partecipazione incrociata. Renault controlla il 43 per cento di Nissan, che detiene il 15 per cento della casa francese. Se però Nissan ha licenziato Ghosn, per Renault vige la presunzione d’innocenza. E il magnate resta così al vertice in Francia, in carcere in Giappone, e nei cuori in Libano.

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