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Gli Champs-Elysée raccontano il discontento di Macron

Mauro Zanon

L’avenue saccheggiata dai gilet gialli si è trasformata nell'epicentro di tutti i tormenti, nello sfogatoio della frustrazione nazionale 

Parigi. Niente più degli Champs-Elysées racconta ciò che è stato il quinquennio di Emmanuel Macron fino a questo autunno e inverno del discontento, niente più della celebre “voie royale” cui diede corpo l’architetto paesaggista André Le Nôtre nel XVII secolo racconta le luci e le ore buie di questi primi venti mesi di mandato. La “plus belle”, per i parigini e anche per Macron fino a quando i gilet gialli non l’hanno scelta come presidio della rabbia, è diventata la “plus rebelle”, come spiega M., il magazine del Monde, nel suo ultimo numero.

  

L’avenue della grandeur e del rayonnement della Francia macronista si è trasformata rapidamente nell’epicentro di tutti i tormenti, nello sfogatoio della frustrazione nazionale contro l’argent, la tecnocrazia, la macronia, le élite. La rotatoria della Place Charles-de-Gaulle, dove troneggia l’Arco di Trionfo, racchiude tutte le rotatorie della Francia profonda, dove i gilet gialli, da due mesi, allestiscono i picchetti, bloccano il bloccabile e urlano la loro collera verso un presidente che accusano di essersi dimenticato di chi non riesce ad arrivare a fine mese. Gli splendori degli inizi, quando il macronismo luccicava e accoglieva Putin e Trump col petto in fuori e un aroma inebriante di liberalismo, europeismo ed entusiasmo per il futuro, hanno lasciato il posto alle doléances, con gli Champs trasformati in campo di guerriglia urbana, i monumenti simbolo della fierezza saccheggiati e l’ordine repubblicano svigorito. “Macron invitaci al Fouquet’s!”, gridavano alcuni gilet gialli, in riferimento al ristorante ultrachic dove Sarkozy festeggiò maldestramente la vittoria delle presidenziali del 2007, banchettando a ostriche e champagne con la crème del Tout-Paris, “Macron dai le dimissioni!”, tuonavano altri in questi sabati di mobilitazione permanente. Eppure, venti mesi fa, quella camminata trionfale sull’esplanade du Louvre, mentre l’Inno alla gioia risuonava in tutta Parigi, lasciava immaginare un futuro diverso. Quel liberale che aveva conquistato l’Eliseo “alla velocità di un Rafale”, come scrive M., sapeva di essere stato votato “soltanto” da 21 milioni di elettori, che due terzi della Francia, tra astensionisti e sostenitori del Front national, erano tutti da conquistare, ma era convinto che il più era stato fatto, perché il “pari fou”, la folle scommessa oltre la destra o oltre la sinistra, era stata vinta.

   

Il giorno dopo l’investitura, per lanciare la sua rivoluzione europeista, corse dalla Merkel, in Germania, il paese che lo aveva definito “wunderkind”, ragazzo meraviglioso, quando elogiava il liberalismo e i conti in ordine da ministro dell’Economia di François Hollande. Poi accolse a Versailles il presidente russo, Vladimir Putin, prima di accogliere The Donald sugli Champs per la festa nazionale del 14 luglio: l’immagine di Macron mentre discende l’avenue a bordo di una camionetta militare aperta, accanto al capo di stato maggiore dell’esercito, il generale Pierre de Villiers, fece il giro de mondo. “France is back!”, dissero i diplomatici francesi ai loro omologhi americani, e Trump, affascinato dallo spettacolo del potere macronista, promise di emularlo sulla Pennsylvania Avenue a Washington. Ma sugli Champs, Macron, ha fatto incontrare anche la Francia di Johnny, la provincia che era salita a Parigi per dare l’ultimo saluto al suo idolo pop, il cantante Johnny Hallyday, quella stessa Francia che poi si è ribellata quando si è sentita tradita. Quando la nazionale di Mbappé e Griezmann regalò alla Francia la seconda Coppa del mondo, la festa fu naturalmente sugli Champs: ma venne troncata da un certo Alexandre Benalla, che costrinse l’autobus dei bleus ad attraversare l’avenue in appena 13 minuti. Per il centesimo anniversario dell’armistizio della Prima guerra mondiale, lo scorso 11 novembre Macron era ancora lì, sugli Champs Elysées, per accogliere più di settanta capi dello stato mondiali. E’ stato l’ultimo spasmo di grandeur: una settimana dopo i gilet gialli hanno presso possesso della “plus belle” trasformandola nella “plus rebelle”.

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