Yiwu (foto LaPresse)

Nei centri della manifattura cinese si sentono i morsi della trade war

Alessandro Bazzoli

Reportage da Yiwu, dove sono prodotti tutti gli accessori “Made in China”, mentre l’economia rallenta ai minimi dal 2009

Yiwu, Zhejiang. Giovedì 18 ottobre l’economia cinese ha fatto registrare il suo peggior risultato dall’inizio del 2009, quando il mondo era nel pieno della crisi finanziaria. Il pil è cresciuto nel terzo trimestre dell’anno del 6,5 per cento, percentuale molto bassa per gli standard cinesi, tanto che il vicepremier Liu He, zar economico del governo, è dovuto accorrere con dichiarazioni rassicuranti per calmare i mercati. Assieme alle preoccupazioni strutturali, a far temere per l’economia cinese è il perdurare della guerra commerciale con gli Stati Uniti: i dazi imposti su beni per un valore complessivo di oltre 200 miliardi di dollari stanno colpendo l’industria, e in uno dei centri pulsanti della manifattura cinese il peso della trade war comiincia a farsi sentire.

   

 

Fino a quindici anni fa Yiwu era uno sconosciuto centro industriale sperso nell’entroterra cinese. Oggi, con un fatturato da 11 miliardi di euro annui è la capitale mondiale della produzione di piccoli beni di consumo. A Yiwu sono prodotti e venduti tutti quei piccoli oggetti che hanno, senza che quasi ce ne accorgessimo, inondato le nostre strade e case. Sono gli ombrelli che venduti agli angoli delle strade quando piove, quelli che si usano una volta e poi si perdono; le tazzine finte del “tutto a un euro”; l’accendino che la nonna tiene vicino alla cucina a gas perché non si sa mai. Tutto ciò che deve funzionare e costare poco. Più del 60 per cento di ciò che viene prodotto in questa cittadina viene esportato, principalmente in Europa e negli Stati Uniti. Più della metà del milione e mezzo degli abitanti di Yiwu – “cittadina” per gli standard cinesi – lavora nello stesso posto: un enorme centro commerciale che occupa una superficie di 5 milioni di metri quadri dove trovano posto più di 70 mila negozi. Si dice ci vogliano due anni per visitarli tutti.

 

La stazione postale internazionale di Yiwu. In funzione dal gennaio 2016, prima della fine di febbraio
aveva già gestito 5,38 milioni di pacchi in uscita (foto LaPresse)


 

Padre Pio e il premier Conte

Sarebbe tuttavia riduttivo spiegare il successo planetario di questa cittadina con il basso costo della mano d’opera. Yiwu è infatti un sistema complesso, in perenne movimento. Tra un negozio e l’altro è possibile trovare studi fotografici preallestiti che vengono pagati collettivamente da tutti i negozianti. Usando modelle e modelli che girano continuamente tra gli studi, tutti i piccoli imprenditori fanno fotografie professionali che poi mettono sul pacchetto del prodotto o caricano su Amazon. Vi è soprattutto una capacità straordinaria ad adattarsi e ad anticipare le tendenze. Liuhua, una donna sulla quarantina, ha un negozio che vende santini e oggetti religiosi cristiani tra cui mostra con orgoglio la nuova collezione di statuette di Padre Pio. Interrogata sul perché di tanta attenzione per il santo pugliese, risponde che ha letto che il nuovo “presidente della Repubblica italiana” è un devoto del santo. Forse Liuhua non conosce troppo bene il nostro sistema istituzionale e non sa che Giuseppe Conte è presidente del Consiglio, ma certamente ha un’idea ben chiara di come funzioni il mercato italiano. Liuhua e i suoi 200 mila colleghi che lavorano a Yiwu rappresentano in maniera plastica le ragioni per cui la Cina si è imposta come superpotenza industriale a scapito della produzione europea e americana. Proprio Yiwu è ciò contro cui Amministrazione americana sta articolando le proprie politiche commerciali. I dazi di Washington destano timori in questa enorme realtà industriale. Ciò nonostante qui Trump sembra essere popolare, quanto meno così dice Jianghong, un altro piccolo imprenditore. Il negozio di Jianghong si nota da lontano perché tutt’intorno ha migliaia di cappellini rossi. Sono i berretti MAGA (Make America Great Again), simbolo della campagna elettorale di Trump. Jianghong dice che qui a Yiwu si sapeva in anticipo chi avrebbe vinto, perché negli ultimi due mesi prima del voto gli ordini di gadget pro Trump erano quasi doppi rispetto a quelli pro Hillary. Jianghong racconta che suo papà ha iniziato riparando ombrelli per le strade, poi negli anni ’80 ha aperto una piccola fabbrica di ombrelli a Yiwu. Alla morte del padre, sul finire degli anni ’90, Jianghong aveva 42 anni. Racconta che sul letto di morte gli promise che sarebbe stato in negozio ogni giorno e avrebbe guadagnato un milione di yuan (centomila euro) all’anno. Oggi oltre a produrre ombrelli, vende gadget per olimpiadi, concerti e campagne elettorali; per fatturare il milione promesso ci mette un mese anziché un anno.

 

Jianghong è preoccupato per la guerra commerciale: per la prima volta da quando ha iniziato a lavorare non è sicuro che l’anno prossimo sarà più ricco. Dice che non sa se il governo potrà aiutarlo, perché alla fine quello che importa è che ci sia lavoro per loro. Con loro Jianghong intende le aziende a partecipazione statale che ancora costituiscono il 40 per cento dell’industria manifatturiera cinese. Chi lavora per loro, dice Jianghong, non deve andare al lavoro tutti i giorni, non deve cercare di far quadrare i conti, non deve scegliere il prodotto giusto. Tanto loro non devono guadagnare, loro devono solo esistere perché, alla fine, lo stato paga comunque.

  

Jianghong non ha tutti i torti. Le aziende a partecipazione statale fanno concorrenza illecita all’estero come in Cina e sono ciò che un’attenta politica commerciale dovrebbe colpire. Distorcono il mercato perché possono beneficiare di tutto il capitale che vogliono a costo zero. Al contrario, le piccole medie imprese, come quella di Jianghong, ricevono meno di un quinto dei crediti concessi dalle banche pur producendo il 50 per cento del pil nazionale e pur occupando l’80 per cento della forza lavoro. L’Amministrazione americana non ha torto quando protesta su questi punti: da ormai tre decenni le pratiche commerciali cinesi sono più che scorrette tra dumping, furti della proprietà intellettuale e protezionismo nel mercato domestico. Il punto è che tutto ciò è dannoso tanto per l’economia globale quanto per quella locale: Jianghong non deve competere solo con i giganti internazionali, ma anche con i giganti locali che hanno più risorse e aiuti dal governo.

  

Il retaggio di Mao

Yiwu è stata scelta come punto di partenza della Via della seta, il mastodontico progetto infrastrutturale lanciato dal presidente cinese Xi Jinping. Da lì partono treni che percorreranno migliaia di chilometri con destinazione Madrid e fermate a Istanbul e Torino. Tra i vagoni stracarichi vi sono probabilmente i berretti di Jianghong. Jianghong in cinese significa “costruiamo un futuro radioso”, è uno slogan maoista degli anni ’70. Come il suo portatore è un retaggio di un’epoca ormai andata, degli anni ’60, della la carestia e della Rivoluzione culturale che insieme hanno fatto 30 milioni di morti. Per due anni Jianghong ha mangiato bucce di patata e poi ha promesso a sé stesso che non avrebbe avuto più fame. Oggi si trova schiacciato tra uno stato inefficiente e tra gli effetti di un’onda populista dall’altra parte del mondo.