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L’ennesima tragedia indonesiana non è solo colpa della natura

Giulia Pompili

Sono almeno novecento le vittime dello tsunami. Prevedere i terremoti non si può, ma prevedere i maremoti, in un certo senso, sì

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Se esiste una definizione di catastrofe, somiglia a quella descritta da Rebecca Henscheke, corrispondente da Giacarta per la Bbc, che qualche ora fa, arrivando in elicottero a Palu, ha scritto su Twitter: “Un'orribile visione per chilometri lungo la costa, cadaveri sistemati in fila dentro ai sacchi per la sepoltura di massa”.

 

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Palu è una delle città principali dell'isola indonesiana di Sulawesi, che a sua volta è la quarta per dimensione del paese. La città è tra le più colpite dal terremoto e dallo tsunami di venerdì scorso, ma è anche tra le poche raggiungibili, e di cui si hanno notizie confermate dalle autorità del governo centrale. Palu si trova sulla costa, rivolta verso il Borneo, ma in una insenatura, e protetta dalle catene montuose: questo fa di Palu una delle destinazioni turistiche più attrattive dell'Indonesia, un paradiso naturalistico, che venerdì è stato colpito prima da un terremoto di 7,5 gradi della scala Richter, e poi è stato investito da un maremoto con onde alte anche sei metri. Le vittime oggi sono ufficialmente quasi novecento, ma secondo il governo indonesiano il bilancio potrebbe salire e di molto, visto che intere zone, come Donggala, sono ancora fuori dal conteggio ufficiale. Ieri il presidente indonesiano, Joko Widodo, ha chiesto ai cittadini di “essere pazienti”, mentre le Forze armate prestano soccorso ai sopravvissuti.

 

Le immagini ricordano non solo quelle dello tsunami giapponese dell'11 marzo del 2011, ma anche quelle del terremoto e maremoto dell'Oceano indiano del 26 dicembre 2004. Il disastro naturale più grave della storia moderna, per numero di vittime – si stima quasi 300 mila – e per estensione. L'Indonesia nel 2004 fu il paese più colpito dalle onde anomale, e per questa ragione dopo la catastrofe si pensò di creare l'Indian Ocean Tsunami Warning System, un sistema di early warning in caso di tsunami, sul modello di quello giapponese. Secondo la stampa locale, e come riportato dall'Associated Press, il sistema di allarme di Palu, costruito con la collaborazione di America ed Europa, era stato istallato per un periodo di prova e poi abbandonato nel 2012 per mancanza di fondi e incuria. 

 

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D'altra parte, l'Indonesia è uno dei paesi più difficili del mondo. Geograficamente, innanzitutto: un insieme di 17-18 mila isole, ognuna con la sua identità, la sua cultura. Su ognuna di esse, la natura determina vita e morte: nel paese il rischio di disastri naturali è tra i più alti del mondo. Tra la fine di luglio e l'inizio di agosto l'isola di Lombok, proprio vicino a Bali, mèta vacanziera di occidentali e australiani, è stata colpita da un terremoto di 6,9 gradi della scala Richter, che ha fatto oltre 560 vittime. Prevedere i terremoti non si può, ma prevedere i maremoti, in un certo senso, sì. Dal momento della "formazione" dell'onda all'impatto con la costa possono passare decine di minuti, minuti preziosi per salire in un piano alto e mettersi in salvo. Le immagini che circolavano ieri sui social network mostravano persone ignare passeggiare sulla spiaggia mentre sullo sfondo, minacciosa, l'onda si avvicinava alla costa.

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Dopo la tragedia, anche i soccorsi hanno mostrato problemi di coordinamento. Non riuscendo a distribuire cibo e generi di prima necessità in modo capillare, le autorità di Palu hanno autorizzato le persone a rifornirsi nei negozi, aumentando però le ostilità all'interno della comunità. Il ministero della Giustizia di Giacarta ha confermato ieri che 1,200 detenuti in due diverse carceri tra Palu e Donggala sono fuggiti. A Palu, in una prigione da 120 posti che ospitava 581 detenuti, il terremoto ha fatto crollare i muri di cinta. A Donggala, dopo il terremoto, i detenuti sono stati presi dal panico, hanno appiccato un fuoco e sono riusciti a scappare. Chiedevano alle autorità di poter andare a controllare le famiglie. 

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