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Il cambio di tono della Corea del nord mostra i limiti della strategia di Trump

Mattia Ferraresi

Gli esperti di strategia nordcoreana dicono che Kim non vuole far saltare l’incontro, ma non può dare un segnale di debolezza

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New York. Un passo fondamentale di The Art of the Deal, il manuale del buon negoziatore di Donald Trump, mette in guardia: “La cosa peggiore che puoi fare in una trattativa è mostrare di volere disperatamente un accordo”. Un altro invece prescrive: “Devi sapere quando alzarti dal tavolo”. Mostrarsi più desiderosi dell’avversario di portare a casa un accordo e pervicacemente rimanere attaccati alla trattativa anche quando non ci sono le condizioni per un affare vantaggioso sono le due strade maestre per dare potere all’interlocutore. Trump ha sempre accusato Barack Obama di essere caduto in questo errore quando ha negoziato l’accordo nucleare con l’Iran dal quale l’Amministrazione si è da poco smarcata: per la sua disperata voglia di ottenere una vittoria politica, Obama ha lasciato che gli ayatollah dettassero le condizioni di un patto scellerato. Le turbolenze intorno al summit con la Corea del nord fissato per il 12 giugno a Singapore, incontro che è l’orgoglio supremo del presidente-negoziatore, dicono che Trump rischia di cadere nello stesso tranello. Per bocca del viceministro degli esteri Kim Kye-gwan, Pyongyang ha cambiato tono sulla trattativa, invocando due motivazioni. La prima è l’esercitazione militare congiunta fra la Corea del sud e gli Stati Uniti, che ha causato la rottura dei dialoghi nella penisola. A Washington erano convinti che non fosse più un ostacolo, tanto che dopo la visita del segretario di stato, Mike Pompeo, i diplomatici americani hanno detto che Kim Jong-un aveva capito “il bisogno e l’utilità” delle esercitazioni. La Casa Bianca, in un caso tipico di contraddizione interna all’Amministrazione, si è poi prodigata per edulcorare la versione di Foggy Bottom. La seconda motivazione è la posizione sulla denuclearizzazione unilaterale portata avanti da John Bolton (“non nascondiamo il disprezo verso di lui”), il consigliere per la Sicurezza nazionale che spesso ha fatto riferimento al modello libico. “Se gli Stati Uniti stanno tentando di metterci all’angolo per costringerci all’abbandono nucleare non siamo più interessati a un dialogo del genere e non possiamo che riconsiderare la nostra partecipazione al summit fra la Corea del nord e gli Stati Uniti”, si legge nel comunicato di mercoledì mattina.

 

Non è facile distinguere la pretattica in vista del summit dalle prese di posizioni politiche. Il consenso prevalente fra gli esperti di strategia nordcoreana è che il dittatore non vuole far saltare l’incontro, ma deve evitare di dare un segnale di debolezza: “L’ultima cosa che Kim Jong-un può permettersi è far vedere che sta cedendo le armi nucleari”, ha detto Koh Yu-hwan, professore della Dongguk University di Seul al New York Times. L’ambivalenza nordcoreana mette però in evidenza anche i potenziali limiti dell’impostazione della trattativa di Trump. Aaron David Miller, già negoziatore nel processo di pace fra Israele e Palestina, li ha riassunti così: “Trump ha commesso due errori nella preparazione del summit con la Corea del nord: ha dimostrato che vuole l’incontro più di quanto lo voglia Kim, e ha alzato troppo le aspettative”. Si tratta di violazioni di alcuni dei principi cardine sui cui Trump ha costruito, nel discorso pubblico, la sua immagine di negoziatore duro e imperscrutabile che rooseveltianamente, nel senso di Teddy, parla a bassa voce ma mostra il bastone e soprattutto è pronto a uscire dalla stanza in ogni momento. La risposta all’improvviso cambio di tono di Pyongyang è un test della proclamata inflessibilità dell’artista del deal.

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I tunnel e gli auti economici

 

Eppure, sostiene Miller, “nessuno dei due errori è fatale. In realtà, se il percorso si corregge potrà ancora avere un incontro positivo, cambiando gradualmente la traiettoria dallo scontro all’accomodamento”. Quali sono i termini dell’eventuale accomodamento è quello a cui stanno lavorando i negoziatori della Casa Bianca. Il rilascio di tre prigionieri e lo smantellamento di alcune strutture nella base per i test nucleari di Punggye-ri fanno parte delle precondizioni per il summit di Singapore, ma ci sono altre questioni non secondarie, come ad esempio le eventuali aperture del regime sul sistema segreto di tunnel che con ogni probabilità nasconde i gioielli dell’arsenale. Pompeo ha promesso che l’America “potrà creare condizioni di prosperità economica per la Corea del nord tali da rivaleggiare con il sud”, ma nel balletto della pretattica nordcoreana anche questa offerta è stata momentaneamente congelata. La partita negoziale, già di per sé intricatissima, è complicata infine dal vanto definitivo dell’autoproclamato maestro delle trattative: non rivelare a nessuno, nemmeno ai più stretti consiglieri, che cosa dirà una volta seduto di fronte all’interlocutore.

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