Manifestanti anti Brexit protestano contro l’istituzione di un “hard border” a Belfast, il 29 marzo 2017, giorno in cui il governo di Londra ha attivato l’Articolo 50 del trattato di Lisbona (foto LaP

La Brexit appesa al confine irlandese

Guido De Franceschi

Tre lettere separano Londra da un accordo sulla Brexit: Dup, il partito nordirlandese che sorregge il governo May

Tre lettere – “d”, “u” e “p” – separano il Regno Unito da un accordo con Bruxelles sulla sua definitiva uscita dall’Unione europea. Dup: è la sigla del Democratic unionist party, il partito più votato dell’Irlanda del nord. Il Dup, fatta esclusione per qualche residuo gruppuscolo davvero oltranzista, è l’espressione dell’ala più radicale della comunità protestante, si batte per mantenere l’Ulster nel Regno Unito, ha fatto una campagna solitaria in Irlanda del nord a favore del Leave nel referendum sulla Brexit e si è sempre esibito come il partito del malumore per eccellenza e del mugugno a prescindere.

 

In realtà, non è soltanto il Dup a intralciare i tentativi di trovare un compromesso per una transizione concordata che conduca il Regno Unito, senza strappi troppo bruschi, fuori dall’Unione europea. Ma il partito degli hardliner protestanti nordirlandesi è senz’altro tra i protagonisti più rumorosi delle trattative sulla Brexit, anche perché può minacciare rappresaglie dirette e immediate sulla sopravvivenza del governo May, qualora le decisioni della premier stropicciassero i suoi tabù unionisti. I dieci seggi del Dup alla Camera dei Comuni sono infatti imprescindibili per il governo di Theresa May, dal momento che i Tory sono sprovvisti di una maggioranza parlamentare autonoma.

 

In ogni caso, con o senza le minacce del Dup, l’epocale salto nell’ignoto scelto dagli elettori inglesi con la vittoria del Leave nel referendum sulla Brexit – un percorso che coinvolge, spaventa o esalta tutto il continente – si è inceppato proprio su un dettaglio solo apparentemente marginale: l’Irlanda del nord o, per meglio dire, il confine che separa l’Ulster dalla Repubblica di Irlanda.

 

Con l’uscita del Regno Unito dall’Unione, la linea impalpabile che da vent’anni attraversa l’isola sarebbe destinata a trasformarsi di nuovo in una barriera fisica, con posti di controllo, code di veicoli, cani addestrati, esibizione di documenti, riscossione di dazi e tariffe e, come temono molti che ricordano il recente passato, attentati dinamitardi. Da un lato del confine, infatti, ci sarebbe l’Irlanda, che partecipa a un’area di libero scambio e a un’unione doganale, dall’altro ci sarebbe il Regno Unito, che a quell’area di libero scambio e a quell’unione doganale partecipava ma non parteciperà più. In altre parole, da un lato del confine ci sarebbe l’Unione europea e dall’altro il Regno Unito.

 

A meno di inventare una soluzione alternativa, appare inevitabile l’erezione di una barriera fisica là dove ora corre soltanto una linea invisibile. Ma una barriera fisica – lo ammettono anche molti brexitari – equivarrebbe a una catastrofe per molti motivi. In ordine crescente di gravità: per i disagi inflitti alle decine di migliaia di pendolari che ogni giorno attraversano il confine; per gli intralci negli scambi commerciali; per l’impatto devastante sulle economie, profondamente interconnese, delle “due Irlande”. E, soprattutto, per la ricaduta, senz’altro depressiva e forse anche pericolosa, che una vera frontiera avrebbe sull’ancora delicatissimo equilibrio emotivo dell’Irlanda del nord, su cui grava il ricordo di decenni di scontri sanguinosi e sanguinari – i morti sono stati più di 3.600 – tra i difensori del matrimonio con Londra, i cosiddetti “unionisti”, e i sognatori di una ricomposizione con Dublino, i cosiddetti “nazionalisti”. Cioè, salvo eccezioni, tra i protestanti e i cattolici, dal momento che l’etichetta confessionale, in realtà, ha sempre avuto il suo peso – Christopher Hitchens in “Dio non è grande” racconta la barzelletta su un uomo che è stato fermato a un blocco stradale a Belfast e a cui è stato chiesto di che religione sia. “Sono ateo”, risponde. Ma una domanda lo inchioda: “Sei ateo protestante o ateo cattolico?”.

  

Morti Paisley e McGuinness, s’è inceppato il dialogo e da un anno e mezzo l’Irlanda del nord non ha un governo locale

Cessata la violenza in seguito agli Accordi del Venerdì Santo del 1998, la comunità cattolica, pur rimanendo del tutto a disagio nell’abbraccio londinese, ha potuto sperimentare con più serenità come la comune appartenenza all’Unione europea, e la conseguente assenza di confini percepiti, potesse almeno parzialmente soddisfare il sentimento di fratellanza con gli irlandesi della Repubblica. Certo, sono comunque rimaste delle differenze, come la moneta (l’euro a sud, la sterlina a nord), ma la commistione è stata straordinaria: basti pensare, ad esempio, che il Sinn Féin è uno dei pochi partiti “transnazionali” d’Europa, con rappresentanti sia nell’Assemblea nordirlandese sia nel Parlamento di Dublino e con un drappello di deputati europei formato da eletti provenienti da entrambi i paesi. A sua volta corroborata dalla pace, anche una parte della comunità protestante ha apprezzato i vantaggi economici di confini più permeabili con l’Irlanda.

 

Assenza di violenza non significa, però, assenza di tensioni. Anzi, nei vent’anni di pace, i due partiti più estremisti (il Dup, unionista, e il Sinn Féin, nazionalista) sono paradossalmente esplosi dal punto di vista elettorale, mentre i due movimenti più moderati (il Social democratic and labour party, nazionalista, e l’Ulster unionist party, che porta già nel nome le sue inclinazioni) sono impalliditi fino all’irrilevanza. Ed è quindi toccato proprio agli arcinemici – Dup e Sinn Féin – sperimentare delle collaborazioni governative che hanno incredibilmente funzionato, grazie all’imprevedibile sintonia umana tra l’ayatollah dell’unionismo, il reverendo Ian Paisley, e il pasionario del nazionalismo, e già capo militare dei terroristi dell’Ira, Martin McGuinness.

 

Morto Paisley e morto McGuinness, il meccanismo sembra essersi inceppato e da un anno e mezzo l’Irlanda del nord non ha un governo locale. Ecco, la riedificazione di una frontiera fisica tra gli irlandesi della Repubblica e gli irlandesi cattolici e nazionalisti che vorrebbero far parte anch’essi della Repubblica, e invece si sentono intrappolati nel Regno Unito, non sembra il miglior lubrificante per riavviare il motore dell’Irlanda del Nord e migliorare gli ancora timidi tentativi di convivenza pacifica. Senza contare che l’Europa – intesa soprattutto come Commissione europea, che mal dissimula un po’ di comprensibile risentimento nei confronti di Londra – non sembra avere alcuna intenzione di permettere che gli irlandesi della Repubblica rimangano soli e abbandonati a fissare la sbarra bianca e rossa che li divide dal nord dell’isola e che soffoca la loro economia.

 

Insomma, senza una decisione condivisa riguardo al confine irlandese, Londra non può procedere in modo consensuale sul percorso della Brexit. Nella quasi trascendente trattativa (il futuro dell’Europa!) tra la più antica democrazia del mondo e altri ventisette paesi, la questione irlandese appare come un dettaglio, una minutaglia novecentesca. Ma non è così. I negoziatori europei sono stati molto chiari: se non c’è un accordo su tutto, non c’è nessun accordo. Quantomeno, l’Unione europea, per cautelarsi e per “proteggere” Dublino, pretende che Londra firmi una clausola paracadute secondo cui, qualora non si riuscisse a trovare una soluzione alternativa che consenta di mantenere un “soft border”, cioè un confine invisibile, tra l’Irlanda e l’Ulster, l’intero Regno Unito o quanto meno l’Ulster dovrebbero rimanere formalmente (o comunque con analoghi oneri e impegni) nel mercato comune e nell’unione doganale europea, proprio per evitare un “hard border”. La prima opzione, il mantenimento delle regole del mercato comune e dell’unione doganale per l’intero Regno Unito, è ovviamente del tutto inaccettabile per i sostenitori della Brexit, e quindi impercorribile per Theresa May. Mentre è proprio sulla seconda opzione, e cioè sull’ipotesi di uno status “differenziale” per l’Ulster, che si manifesta il protagonismo (“Bye-bye governo”) del Dup: in questo caso, infatti, il muro doganale non sarebbe tra Repubblica di Irlanda e Irlanda del nord, ma tra Irlanda del nord e Regno Unito, ratificando, di fatto, quella riunificazione dell’isola che i nazionalisti cattolici sognano da un secolo.

 

A oggi appare inevitabile la creazione di una barriera fisica là dove ora corre soltanto una linea invisibile sull’isola irlandese

Ma i cattolici dell’Ulster, per l’appunto, che cosa dicono? Il Sinn Féin sta interpretando un ruolo di basso profilo, avendo individuato una win-win situation per la propria opzione politica: qualora dovesse verificarsi l’ipotesi (in realtà impossibile) di un status particolare per l’Irlanda del nord, si tratterebbe di una indipendenza de facto, e quindi di un grande trionfo. E se invece una barriera fisica tornasse a dividere l’isola, il Sinn Féin potrebbe convogliare a suo vantaggio il malcontento dell’Ulster, in cui ha vinto il Remain e in cui, nelle regioni a maggioranza cattolica, l’opzione europeista ha raccolto un consenso superiore a quello di ogni altra circoscrizione fuori da Londra: un’Irlanda molto divisa è il miglior argomento a favore di un’Irlanda unita.

 

Intanto, intrappolata nel dossier irlandese, Theresa May, per rassicurare Dublino e i nordirlandesi che hanno votato Remain, ha affermato che non ci sarà una frontiera fisica attraverso l’Irlanda; per rassicurare i gelosi custodi dell’ortodossia brexitara, ha affermato che il Regno Unito lascerà senz’altro il mercato comune e l’unione doganale; per rassicurare l’Europa ha detto che ci sarà un “allineamento” delle norme (tariffarie e non tariffarie) che consentirà di non danneggiare le economie di Dublino e di Belfast ; per rassicurare il Dup, ha affermato che non ci sarà alcuna separazione doganale tra l’Irlanda del nord e il resto del Regno Unito. Ma trovare una soluzione che tenga conto di tutte queste promesse non è facile. E, oltretutto, c’è poco tempo per provare a farlo: il Regno Unito, secondo gli accordi, uscirà ufficialmente dall’Ue nel marzo 2019, per poi iniziare un periodo di transizione che si concluderà definitivamente il 31 dicembre 2020. Per rispettare queste scadenze, è necessario chiudere tutti i dossier, compreso quello irlandese, in tempo per il Consiglio europeo del prossimo giugno, in modo da poter stipulare un accordo definitivo in ottobre. L’accordo sarà poi sottoposto al Parlamento inglese, per l’approvazione. Per fare pressione sui recalcitranti, Theresa May diffonde l’idea secondo cui, qualora il Parlamento di Londra non ratificasse l’accordo raggiunto con Bruxelles dal suo governo, il Regno Unito sarebbe costretto a tuffarsi senza rete e in modo unilaterale nei marosi della Brexit, ma alcuni deputati laburisti chiedono che al Parlamento sia consentita l’opzione intermedia di rispedire i negoziatori al tavolo della trattativa con l’Europa, qualora gli accordi non convincessero la maggioranza dei deputati.

 

Ma quali sono quindi le ipotesi per scongiurare sia un confine fisico attraverso l’Irlanda – che significherebbe un non-accordo con l’Europa e rischierebbe di far precipitare l’Ulster nel gorgo di un (orribile) déjà-vu – sia un ancora più assurdo confine interno al Regno Unito – che tra l’altro coinciderebbe con la fine immediata dello stesso governo che potrebbe firmarlo? Ci sarebbe “l’opzione tecnologica” (telecamere, controlli delle targhe incrociati con documenti fiscali preventivi), ma i realisti la considerano una concessione al pensiero magico: non funziona tra Norvegia e Svezia, funzionerebbe ancor meno tra Regno Unito e Irlanda. Infatti questa tecnologia, in realtà, non c’è e comunque la Norvegia, che pure non è nell’Ue, ha rapporti con Bruxelles molto più vincolanti e onerosi di quelli pretesi dai brexitari tutti d’un pezzo e persino da quelli più moderati. In ogni caso, poi, non è facile ritessere complessi accordi di free trade in pochi mesi (“Come la Svizzera!, “Come la Norvegia!), dopo essersi consapevolmente sottratti a un formidabile intreccio diplomatico pregresso: uscendo dall’Ue, sostiene Michel Barnier, il capo dei negoziatori sulla Brexit per conto di Bruxelles, Londra rinuncia a ben 750 trattati commerciali internazionali. Al momento, Londra punta quindi sull’“opzione ibrida”: il Regno Unito si offre di continuare a vigilare sui suoi confini come se si trattasse di confini dell’Unione europea, per poi tracciare ogni importazione in modo differenziato applicando la tariffa corrispondente, a seconda che la destinazione finale sia l’Unione europea o il Regno Unito. In questo modo Irlanda e Regno Unito condividerebbero una frontiera esterna “europea” e non avrebbero bisogno di confini fisici tra loro.

 

Molti interlocutori rimangono però piuttosto diffidenti di fronte a ogni ipotesi risolutiva che contempli un’adesione à la carte del Regno Unito alle regole e alle norme europee, una soluzione che Londra presenta come pragmatica ma che Bruxelles considera soltanto comoda (per Londra). Nel frattempo, la palma della proposta più ingegnosa, segnalata ironicamente sull’Independent da Jonathan Powell, ex chief of staff di Tony Blair e capo negoziatore per l’Irlanda del Nord dal 1997 al 2007, va al campione del Leave Jacob Rees-Mogg: secondo lui, il governo di Londra, per risolvere ogni problema, dovrebbe semplicemente chiedere all’Irlanda di lasciare a sua volta l’unione doganale e il mercato comune.

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