Foto GillyBerlin via Flickr

L'educazione porno

Bandire la pornografia per salvare il sesso. La proposta del conservatore Douthat triangola con il #MeToo

New York. Ross Douthat, editorialista conservatore del New York Times, ha avanzato una modesta proposta: bandire la pornografia. Che nei termini odierni significa bandire la fonte quasi esclusiva, accessibile istantaneamente e gratuitamente da qualsiasi device, dell’educazione sessuale di varie generazioni, e forse anche della cultura più in generale. Circolano spesso mappe delle parole chiave più cercate nei vari paesi sui principali portali porno, e da queste si vogliono dedurre grandi tendenze socioculturali, come se fosse una specie di paniere globale dell’Istat (se in Lombardia la categoria più cercata è “ebony”, quale sarà il destino politico di Matteo Salvini?, ci si domanda). Douthat, si diceva, lancia una forma di proibizionismo pornografico, e il programma è reso ancora più vasto dalla ricerca di un’alleanza, per questo progetto, con la “grande revisione sessuale” che si sta squadernando sotto i nostri occhi, una revisione che “non sarà completa se non giudicherà la nostra resa all’idea che molti teenager, specialmente uomini, ricevono l’educazione sessuale dalle sconcezze che trovano in rete”. E’ su Pornhub o YouPorn che si formano l’immaginario e le aspettative sessuali dei ragazzi, è lì che si maturano opinioni su cosa può soddisfare il partner o su cosa è necessario fare per ricevere e dare piacere. Soltanto che le camere da letto della vita reale non sono come i set di un film, le persone reali non si comportano come gli attori, anche se quella ormai è una specie di aspettativa interiorizzata.

 

Douthat vede la possibilità di trarre un beneficio dal neopuritanesimo, che ha spesso criticato, del #MeToo, anzi da quella parte del movimento “che è interessato a discutere dell’infelicità sessuale e non solo delle molestie”, tendenza esemplificata dal racconto breve “Cat Person”di Kristen Roupenian, diventato il più letto della storia del New Yorker e apripista di un contratto editoriale milionario per l’autrice; quel gruppo, scrive l’editorialista del Times, “chiaramente vuole parlare della pornografia, anche se ancora non se ne rende conto”. Serpeggia nel movimento neofemminista “una specie di repulsione femminile non solo verso i predatori in stile Harvey Weinstein, ma verso una personalità maschile molto diversa che un’educazione pornografica contribuisce a produrre [...] una specie plasmata dalle possibilità di gratificazione sessuale senza precedenti che sono frustrate dal fatto che le donne reali sono meno disponibili e più complicate delle loro versioni sullo schermo”.

 

Il #MeToo porta insomma le tracce del movimento antipornografia inscritto nel filone femminista di Andrea Dworkin, Gloria Steinem e Catharine MacKinnon, lei che con il suo Sexual Harassment of Working Women, anno 1981, è stata la profetessa dell’èra Weinstein. Quel movimento è stato sconfitto nel supremo tribunale della libertà individuale, quello per cui ogni costume che non danneggia l’altro è lecito e buono se è liberamente scelto. L’inghippo scovato da Douthat è che la presente rivoluzione mischia la molestia e il bad sex, confonde i confini di coercizione e consenso, segnalando un disagio sessuale generale che prolifera in quella che la sociologa Gail Dines chiama la “cultura pornificata”. Dines si è resa conto della vastità del problema quando, per lavoro, ha intervistato un uomo che aveva stuprato la figliastra di dodici anni. Per i molestatori come lui la fase dell’adescamento, quella in cui si crea il legame con la vittima, è cruciale, e quando l’ha descritta alla ricercatrice ha aggiunto: “La cultura ha fatto gran parte del lavoro per me”.

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