L'arresto di Otto Warmbier (foto LaPresse)

Per capire la morte di Warmbier basta ricordare che la Corea è un regime

Giulia Pompili

È morto il cittadino americano rilasciato dal regime nordcoreano. Ora tutti si accorgono delle atrocità

Roma. Otto Warmbier, uno studente americano poco più che ventenne, un paio di anni fa ha ceduto alla curiosità. Una curiosità che lo ha condotto in Corea del nord, dove (forse) ha fatto una stupidaggine, e da quel momento è stato trasformato, suo malgrado, nel volto della propaganda nordcoreana. Poi però è accaduto qualcosa. E quel qualcosa fa parte dei grandi misteri che avvolgono le notizie che riguardano la Corea del nord. L’unica cosa certa finora è che lo studente americano è tornato a casa in coma, il 13 giugno scorso, soltanto sei giorni prima di morire.

 

Un paio di anni fa era il periodo del grande successo della serie di Vice trasmessa sulla Hbo: un gruppo di giocatori dell’Nba che vanno in Corea del nord a divertirsi, e mostrano il lato bizzarro e divertente della capitale nordcoreana – compreso quello del suo leader Kim Jong-un, appassionato di basket. La serie tv, nonostante le critiche, ha un grande successo in America. Nel 2015 Otto Warmbier, che è originario di Wyoming, ottomila anime nello stato dell’Ohio, studia all’Università della Virginia e frequenta il terzo anno della McIntire School of Commerce. Otto decide di partecipare, nel dicembre del 2015, a uno dei viaggi organizzati della Young Pioneer Tours, una “società di viaggi-avventura” cinese, “la prima a offrire tour economici nella Repubblica democratica di Corea”. Da anni Pyongyang tenta di accreditarsi come meta turistica dell’estremo oriente: è anche per questo che è nato il semideserto Masikryong Ski resort, impianto sciistico costruito nel 2014. La Young Pioneer Tours funziona così: offre un’esperienza “indimenticabile” in uno dei luoghi “più chiusi del mondo” (“il viaggio che i vostri genitori non vogliono che facciate!”, recita un loro slogan), e lo fa coccolando la curiosità di giovani e a volte incoscienti ragazzi il cui unico scopo, dal punto di vista di Pyongyang, è portare in Corea del nord valuta straniera. 

 

Il compagno di viaggio di Otto Warmbier, Danny Gratton, intervistato per la prima volta da Josh Rogin del Washington Post una settimana fa, ha detto: “Otto era un ragazzo fantastico che è caduto in una situazione orrenda, che nessuno poteva mai immaginare. E’ qualcosa che noi in occidente non possiamo capire, non possiamo cogliere quanta malvagità può esserci dietro quella dittatura”. “La Corea del nord viene spesso definita un failed state”, dice al Foglio Gianluca Spezza, PhD candidate alla UClan University e studioso di questioni nordcoreane, “è una definizione che si fa su solide basi: l’economia è appassita lentamente a partire dagli anni 70, ed è moribonda da più di 25. Il sistema sociale che legava la struttura economica a quella politica è crollato a causa delle inefficienze della prima e del peso della seconda. Una volta, per i canoni di sviluppo delle economie pianificate, Pyongyang poteva vantare una rete di scuole, ospedali, e servizi efficienti. Non è più così da tempo. Poi c’è la questione dei diritti umani: l’insieme di leggi nordcoreane sono scritte sulla base di un paese che è passato da vassallo dell’impero cinese a colonia dell’impero giapponese a dittatura nazional-socialista. Non ha mai conosciuto un processo di democratizzazione. Le nozioni di diritti e libertà individuali non esistono, esistono solo i doveri collettivi”.

 

Il caso di Otto Warmbier è un punto di non ritorno nei rapporti tra l’America e la Corea del nord. Anzitutto perché il giovane studente è il primo a morire dopo una lunga detenzione, durata diciotto mesi, in Corea del nord. Pyongyang con i detenuti americani segue da decenni la stessa strategia: sono ostaggi, più che detenuti, e dunque nessuno ha interesse a fargli del male. La trattativa sul rilascio dei cittadini stranieri è fondamentale per ricevere aiuti internazionali, occhi chiusi sui traffici poco legali e sull’elusione delle sanzioni economiche.

 

Warmbier è stato arrestato all’aeroporto di Pyongyang, il 2 gennaio del 2016, accusato di atti ostili contro il regime. Secondo il regime, la notte di Capodanno, mentre era nel suo hotel – lo Yanggakdo International Hotel, quello costruito su un’isola sul fiume Taedong, proprio come fanno i regimi per ospitare e tenere sotto controllo le delegazioni straniere – Otto avrebbe tentato di rubare un poster di propaganda. Lo avrebbe fatto introducendosi illegalmente nel quinto piano dell’hotel, quello riservato ai dipendenti e quindi tappezzato di messaggi contro gli stranieri, contro l’America, sul Caro Leader. Danny Gratton, il compagno di stanza, ha raccontato per la prima volta al Washington Post che al momento di ripartire, il 2 gennaio, due guardie nordcoreane sono arrivate, e senza dire una parola lo hanno portato via per dei controlli. Una volta arrivati che il gruppo (senza Otto) è atterrato a Pechino, Warmbier avrebbe risposto al telefono a una delle guide, avrebbe detto di avere uno strano mal di testa e di aver preferito un controllo in ospedale al viaggio fino in Cina. In realtà era già nelle mani delle autorità nordcoreane ma nessuno, in America, ha mai fatto qualche domanda a Gratton, unico testimone di questa strana vicenda.

 

Due mesi dopo la televisione di stato nordcoreana ha mandato in onda una specie di “confessione” di Warmbier, che tra le lacrime ammetteva di aver compiuto “l’atto ostile” di furto di un poster: fino ad allora nessuna comunicazione sul suo status era stata diffusa. Il 16 marzo 2016 in uno strano processo senza appello e senza difesa – come si usa nei regimi, appunto – Warmbier è stato condannato a quindici anni di lavori forzati. E’ qui che inizia il passaggio da crisi diplomatica a crisi politica perché l’Amministrazione di Obama decide di iniziare i colloqui segreti per il rilascio dell’ostaggio americano, ma domanda ai genitori Warmbier, Fred e Cindy, di tenere un profilo basso finché il figlio non sarà tornato a casa. Nel frattempo, di mezzo, c’è però una campagna elettorale. E poi ci sono le elezioni, e la vittoria di Donald Trump, ovvero la fine della “pazienza strategica” nei confronti della Corea del nord. Inizia così una nuova fase di colloqui, ma in tutto questo non è possibile chiarire quando, effettivamente, le autorità americane e il negoziatore per la Corea del nord del dipartimento di stato, l’ambasciatore Joseph Yun, hanno saputo che Otto Warmbier era in coma, incapace di rispondere agli stimoli esterni.

 

Quando è tornato in America, il 13 giugno scorso, i medici dell’ospedale di Cincinnati hanno diffuso un comunicato nel quale hanno spiegato che Otto non è stato picchiato. Sarebbe in stato di coma da oltre un anno, dopo i danni cerebrali causati da un arresto cardiaco prolungato. La Corea del nord, nel rilascio per “motivi umanitari”, avrebbe parlato di botulinismo unito all’assunzione di un sonnifero: un’altra versione che non torna, in questa faccenda. E’ possibile che il regime abbia tentato di sedare Otto, e che qualcosa poi sia andato storto. Ma perché rimpatriarlo soltanto adesso? E tecnicamente, anche se Warmbier non è morto su suolo nordcoreano, chi l’ha ucciso? Il senatore repubblicano John McCain ha detto ieri quello che in molti scrivevano su Twitter: “Il regime di Kim Jong-un ha ucciso un giovane americano. E ci sono ancora tre cittadini detenuti. L’America non può tollerare che un cittadino venga ucciso da forze ostili”. A differenza di McCaine, ieri la Casa Bianca ha diffuso un comunicato piuttosto calmo, esprimendo le condoglianze alla famiglia e parlando della “brutalità” del regime di cui Otto “è solo l’ultima vittima”. L’ambasciatrice americana alle Nazioni unite, Nikki Haley, ha dichiarato contestualmente che da decenni conosciamo la disumanità del regime, ma che il singolo caso di Otto ha “toccato i cuori americani”. Il fatto è che a forza di trattare la Corea del nord come una macchietta, ci dimentichiamo di cosa sia capace il regime di Kim Jong-un. “Pyongyang è uno stato in guerra, contro l’America e contro la Corea del sud”, dice Spezza, “Il problema sta nel fatto che i media, e una parte dei commentatori da decenni dipingono il paese e la famiglia Kim che lo guida, assieme ad una sempre crescente élite politica e militare, con toni caricaturali. E’ iniziato tutto con la successione da Kim Il-sung a Kim Jong-il e poi a Kim Jong-un. E’ paradossale: la Corea del nord viene alternativamente descritta come ‘l’inferno sulla terra’ e poi il suo leader viene ritratto come un bambino capriccioso che indossa il pannolone e agita un missile nucleare. Questo non succede con nessun altro regime al mondo. E forse è ora che si inizi a prenderla sul serio, e il primo passo da fare sarebbe di smetterla col gossip, e studiare di più un paese che ha resistito a carestie, guerre, e ha sviluppato un arsenale atomico” sotto al naso dell’America.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.