Il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu (foto LaPresse)

In Siria, la Turchia apre una terza via contro Isis

Daniele Raineri

Lo Stato Islamico brucia vivi i soldati turchi. Ad al Bab Erdogan ha quattro obiettivi (c’entrano anche Russia ed Europa)

Roma. L’escalation dell’operazione militare turca “Scudo dell’Eufrate” nel nord della Siria sta di fatto cambiando il corso del conflitto. La guerra civile siriana era rimasta bloccata a due concetti chiave: “L’Amministrazione Obama si è ritirata e ha lasciato un vuoto” e “o si sta con Assad e i russi o si sta con i jihadisti”. La Turchia ora apre con discrezione una terza via (per interesse suo, certo, non ci sono benefattori in quel teatro di operazioni). In queste settimane l’alleanza fatta da soldati turchi e gruppi ribelli siriani sta assediando al Bab, la città ora innevata e ancora in mano allo Stato islamico che sta al centro della zona a nord di Aleppo conquistata dai turchi. Al Bab era la casa di Abu Muhammad al Adnani, il capo del gruppo terrorista che comandava la divisione che si occupa degli attentati all’estero prima di essere ucciso da un drone americano a fine agosto. Come Raqqa, che appare sempre nei video, anche al Bab è una capitale mediorientale delle stragi in Europa. L’assedio turco non sta andando bene (38 soldati uccisi) perché i baghdadisti oppongono una resistenza molto forte, usano missili controcarro saccheggiati nelle caserme e giovedì scorso hanno messo su internet un video di sfida al presidente turco Erdogan in cui bruciano vivi due soldati turchi catturati a novembre. Il video, se possibile, è peggio di quello in cui uccidono il pilota giordano – fatto uscire nel gennaio 2015. La telecamera stringe su uno dei due soldati agonizzanti che dice: “Salvami Erdogan”. Domenica, dopo bombardamenti indiscriminati che hanno fatto decine di morti, l’esercito ha mandato altri carri armati e cinquecento uomini delle forze speciali, i Bordo Bereliler, che in turco vuol dire: Berretti marrone.

Prima o poi, i turchi batteranno per esaurimento lo Stato islamico ed espugneranno al Bab, dove – secondo fonti assadiste – ricevono da domenica anche l’aiuto di bombardieri russi (è una cosa che un anno fa sarebbe suonata inaudita, ma qui si vede il frutto degli incontri e delle telefonate tra Erdogan e il presidente russo Vladimir Putin). Quando succederà, Ankara avrà raggiunto molti suoi obiettivi con una mossa sola. Avrà spezzato il sogno curdo della continuità territoriale del Rojava (il “Kurdistan siriano”) perché ora la sua presenza impedisce ai cantoni curdi di Afri e di Kobane di unirsi. Avrà guadagnato credenziali internazionali come nemico dello Stato islamico – che produce video orrendi di minacce contro Erdogan, “l’apostata da ammazzare”. Avrà guadagnato spazio per riversare nel loro paese d’origine i milioni di profughi siriani che ora vivono nei campi in Turchia, non tutti ma molti di loro – tra gli applausi muti dell’Unione europea, che teme di vederli arrivare. E avrà creato una nuova opposizione siriana contro Assad, senza gruppi jihadisti affiliati ad al Qaida. Per andare a combattere con i soldati turchi, i ribelli siriani devono uscire dal paese dal nord di Idlib, passare in territorio turco e rientrare in Siria dal confine a nord di Aleppo (il tutto su autobus sorvegliati dai militari). Sono due vasi non comunicanti.

 

 

In questo modo si sta creando un filtro tra Idlib, dove regna l’anarchia e dominano i gruppi jihadisti che attraggono i foreign fighters, e il nord di Aleppo, dove ci sono soltanto gruppi di siriani che passano la selezione dei turchi. E’ come se l’esercito di Ankara stesse applicando ai ribelli il concetto di “bad bank”, preso dal settore finanziario: tutti gli asset tossici restano a Idlib, gli altri combattono contro lo Stato islamico. E lo fa per adesso con il beneplacito dei russi, che con la loro approvazione dimostrano di non condividere al cento per cento la promessa del presidente siriano Bashar el Assad di “riprendere ogni centimetro della Siria”. Resta da vedere cosa sarà nei prossimi mesi e anni di questa regione antiassadista creata attorno ad al Bab, che in arabo vuol dire “la Porta”, s’intende di accesso ad Aleppo, distante meno di quaranta chilometri. 

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)