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Il grande show di Rodrigo Duterte è aperto a tutti, nonostante James Taylor

Giulia Pompili

Il cantautore americano boicotta Manila per protesta contro la mattanza promossa dal presidente. La guerra alla droga è già sul palco

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Roma. La polemica sul “boicottaggio” di Andrea Bocelli, che ha deciso di non cantare per il presidente americano eletto (e impresentabile) Donald Trump, è niente in confronto al casino scatenato da James Taylor, uno che di solito si tiene lontano dalla politica pur rivendicando da sempre il suo supporto (anche finanziario) al presidente Barack Obama. Taylor, re del cantautorato americano degli anni Settanta, ha annunciato ieri di aver cancellato il suo concerto di Manila, previsto il 27 febbraio del prossimo anno nell’ambito di un tour del Pacifico, per protestare contro le esecuzioni sommarie (34 al giorno, di media) del presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, contro il traffico di droga. “Non penso che la mia musica sia particolarmente politica ma di fronte a certe cose si è chiamati a prendere una posizione”, ha scritto l’autore di “You’ve got a friend” su Twitter. Taylor ha riconosciuto quello della tossicodipendenza come un problema “globale”, e che “le nazioni sovrane hanno il diritto di perseguire e punire, secondo la legge, i responsabili dello spaccio”, ma non senza un giusto processo: “E’ inaccettabile per chiunque ami lo stato di diritto”. Taylor, che ha combattuto la sua dipendenza da eroina negli anni Settanta, si è trasformato così nel primo artista occidentale a boicottare le Filippine per il “problema” Duterte, ma ha scoperto sulla sua pagina Facebook che ci sono molti filippini che in realtà preferiscono il presidente alla versione live di “Fire and Rain”.

In effetti, di quanto sta accadendo nel paese asiatico, ciò che colpisce di più è il disinteresse apparente con cui l’occidente sta trattando la questione. Questo non vale per i media: lo stile schietto e aperto del presidente Duterte, in carica da nemmeno sei mesi, si riflette anche nella sua strategia di comunicazione. Non c’è reporter, fotografo, blogger, che non sia autorizzato a vedere ciò che succede nei quartieri della droga di Manila, e quindi a testimoniare la mattanza autorizzata da Duterte contro non solo i trafficanti, ma gli utilizzatori della droga. Dopo il lungo reportage di Daniel Berehulak, il New York Times ha chiesto ai lettori filippini cosa ne pensassero di esecuzioni simili da parte della polizia, concittadini privati di un giusto processo. Le risposte date al quotidiano corrispondono ai sondaggi: l’80 per cento dei filippini appoggia le politiche di Duterte. “La paura dei signori della droga si è sostituita alla paura della polizia”, ha scritto Honey de Peralta su Facebook al Nyt, che vuol dire ciò che pensano in molti: il prezzo è alto, ma va pagato, perché il paese torni a essere sicuro.

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Ma non è soltanto una questione di criminalità. Qualche giorno fa, Duterte ha detto che nel 1988, quando era sindaco di Davao, ha ucciso “personalmente” tre sospettati durante un conflitto a fuoco, per mostrare ai poliziotti presenti che se riusciva a farlo lui, erano capaci anche loro. Nei giorni successivi ha modificato un po’ la versione – non sa più se a uccidere i tre siano stati proprio i suoi proiettili, ma tant’è. La commissione per i diritti umani dell’Onu ha chiesto ieri formalmente alle autorità filippine di aprire un’inchiesta per omicidio, e di verificare se nelle Filippine esista ancora un sistema giudiziario. Nel frattempo, il presidente dal pugno di ferro si allontana sempre di più dall’influenza americana e si avvicina a Pechino, e mentre tutti gli sforzi sono concentrati sulla guerra alla droga, nel sud delle Filippine cresce e prospera un’enclave jihadista tra le più pericolose del mondo. Ieri l’Indonesia ha dato l’allarme: lo Stato islamico sta costruendo la sua base a Mindanao, e lì gruppi legati ad Abu Sayyaf potrebbero mettere le radici in Asia. 

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