Il muro di Ciudad Juarez, al confine tra Messico e Stati Uniti (foto LaPresse)

C'è una grande ditta pronta a costruire il muro di Trump col Messico. E' messicana

Maurizio Stefanini

Il Grupo Cementos de Chihuahua si candida per le forniture di cemento per la struttura che dovrebbe percorrere 3.200 chilometri. Ma i dubbi sulla sua realizzazione restano. 

“Pur di fare soldi, i capitalisti sarebbero capaci di venderci le corde con cui li impiccheremo”, è una famosa frase attribuita a Lenin. Di corde, vista la fine che ha fatto il comunismo, non ce ne è stato poi bisogno. In compenso, per far soldi una società messicana si sta ora offrendo per la fornitura di cemento per il famoso muro anti-clandestini che Donald Trump ha proposto di far costruire lungo i 3.200 chilometri di frontiera che corrono tra gli Stati Uniti e lo stesso Messico. È il Grupo Cementos de Chihuahua, una delle più importanti imprese che in Messico si occupano di edilizia e che, come indica il nome, ha la sua sede centrale proprio in una delle città di frontiera che lo sbarramento vorrebbe a chiudere. Oltretutto, la Cementos de Chihuahua è anch’essa una componente di quella “invasione messicana” che Trump ha promesso di fermare, visto che il 70 per cento dei suoi ricavi vengono da tre stabilimenti che si trovano negli Stati Uniti, dove è leader del settore in New Mexico e Arizona. Ma Enrique Escalante, il direttore generale della società, ha spiegato che proprio per via di questa presenza non è il caso di fare troppo gli schizzinosi. “Non possiamo essere selettivi”, ha detto. “Siamo un produttore importante in questa zona e dobbiamo rispettare i nostri clienti da entrambi i lati della frontiera”, ha spiegato. “Per il tipo di business che facciamo, Trump è un candidato che favorisce abbastanza l’industria”, ha aggiunto. Che Cementos de Chihuahua creda davvero in Trump è dimostrato anche dal fatto che subito dopo la sua elezione si è affrettato a rilevare dall’altro gigante delle costruzioni messicane, Cemex, un asset negli Stati Uniti per un valore da 306 milioni di dollari.  

  

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“Il Messico pagherà il 100 per cento della spesa”, aveva promesso Trump in campagna elettorale, spiegando che se non l’avesse fatto il suo governo si sarebbe allora rivalso sulle rimesse degli emigranti. Ma subito dopo l’elezione dal gruppo repubblicano erano arrivate varie puntualizzazioni, secondo cui realizzare 3.200 chilometri di muraglia attraverso fiumi, montagne e proprietà private sarebbe stato non solo complicato ma perfino controproducente, visto che avrebbe potuto togliere ai sorveglianti la necessaria visuale. Molto meglio una combinazione tra reticolati, cancellate e barriere virtuali di sensori, da integrare al migliaio di chilometri di barriere già realizzato da Bill Clinton, e con presidi rinforzati da personale federale, tra l’altro legato a sindacati notoriamente a favore di Trump. Quanto al finanziamento, sarebbe stato idealmente “pagato dal Messico” nel senso che i soldi sarebbero stati recuperati dagli stanziamenti a favore degli emigrati. Nelle sue dichiarazioni successive Trump ha più o meno confermato questa interpretazione, salvo poi far scomparire completamente il muro dalla lista delle cose da fare nei primi 100 giorni di governo.

In compenso, nell’elenco c’è la denuncia del Ttp, e l’annuncio di una rinegoziazione del Nafta con Messico e Canada, che dovrebbe presumibilmente portare al suo dissolvimento. Alcuni si sono messi a fare i conti di quello che potrebbe essere l’esito di un ritorno massiccio alle barriere protezioniste: si stima ad esempio che fabbricare l’iPhone negli Stati Uniti, come ha chiesto Trump, potrebbe passare dagli attuali 800 euro di a oltre 2 mila. È possibile che anche il muro alla frontiera col Messico abbia bisogno di essere delocalizzato agli stessi messicani per poter essere economicamente sostenibile?    

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