Tra contestazioni e lacrime, il popolo di Sanders si arrende
La prima giornata della convention democratica si è aperta con una polifonia dissonante e fuori tempo e si è chiusa con una cavalcata delle valchirie, dove anche gli strumentisti più riottosi hanno tenuto bordone.
Con l’alternarsi di interventi sul palco tutti orientati alla riunificazione, gli intermezzi musicali ad alto tasso emotivo (Paul Simon ha cantato la didascalica “Bridge Over Troubled Water”) le testimonianza in stile Demi Lovato, e pure un violento temporale che fuori dal Wells Fargo Center ha spento i focolai di protesta, il crescendo emotivo e forse anche la presa di coscienza che le istanze di Bernie sono state in parte recepite dalla candidata, il dissenso s’è smorzato. Decisiva, in questo senso, anche l’insistenza nell’usare la battaglia contro Donald Trump come collante democratico; l’avversario repubblicano è comparso continuamente, forse anche un po’ troppo per un partito che ha criticato piccato gli eccessi delle campagne negative altrui. Dagli abiti Made in Mexico all’ipotesi spaventosa di dargli in mano i codici delle testate nucleari, molti dei punti di aggressione sono stati già sfruttati. Un piccolo gruppo di irriducibili di Sanders, all’interno della composita delegazione della California, ha continuato per tutta la serata a intonare canti sandersiani, ma era un rumore di fondo più che un reale disturbo. La comica Sarah Silverman, sostenitrice di Bernie durante le primarie, ha fatto una complicata opera di rappacificazione, sfruttando il registro umoristico per dire cose che in altre formule sarebbero state difficili da comunicare. Punch line: “Alla gente ‘Bernie or bust’: siete ridicoli!”.
Così è stata lanciata la prima serata, dove è intervenuto un parterre di un calibro che il Partito repubblicano non è riuscito ad eguagliare nemmeno nella sua ultima serata di convention. Michelle Obama, Elizabeth Warren e Bernie Sanders sono intervenuti, anticipati dal senatore Cory Booker, politico di abilità non fuori dal comune ma solido comunicatore, perfetto quando si tratta di infiammare un’adunata.
Bernie Sanders sul palco di Philadelphia (foto LaPresse)
Bernie è arrivato sul palco introdotto da uno spot elettorale che è rimasto nel cuore dei suoi, una sequenza di immagini della vita americana senza parole, accompagnate soltanto dalla canzone “America” di Simon: per circa otto minuti gli applausi scroscianti gli hanno impedito di iniziare a parlare. Non ha fatto nulla di diverso del solito stump speech se non per il finale: “Qualunque osservatore obiettivo concluderà che, basandosi sulle sue idee e la sua leadership, Hillary deve diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti”. Elizabeth Warren, alleata della sinistra antisistema, si è mossa come al solito sullo stesso registro, mentre è toccato alla first lady fare il discorso sula speranza e sul progresso, ricordando che in questo mondo così oscuro ma anche così pieno di opportunità, le sue figlie possono giocare nel giardino della Casa Bianca, che è stata costruita dagli schiavi. Ora è grazie al constante lavorìo di Hillary per raggiungere e rompere l’ennesimo “glass ceiling” che Sasha e Malia “possono dare per scontato che ci potrà essere una dona alla Casa Bianca”.
Il contrasto profondo fra il tipo di messaggio di Michelle e quello di Bernie e Warren è evidente: la storia di speranza e progresso del “più grande paese della terra” va in affanno quando incontra quella di un paese ingiusto, diseguale, “rigged”, un luogo di sfruttamento che deve essere cambiato nelle sue strutture più con una rivoluzione politica, perché la volontà riformatrice non basta. C’è un ampio fossato che separa la posizione espressa da Michelle e quella di Sanders e Warren, ma nel contesto della performance della prima giornata le divisioni si sono progressivamente attenuate. I delegati di Bernie hanno chiuso l’esordio in lacrime, eppure allineati.