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Cronache dall’islam moderato

Redazione
Scommettere sui regimi religiosi (vedi Turchia e Iran) in nome della stabilità. Ritrovarsi senza un piano B.
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Roma. Nella stagione delle distinzioni, in cui un “jihadista radicalizzato in fretta” sembra in qualche modo diverso da uno che s’indottrina da anni pur se fa strage di ottantaquattro persone; nella stagione del compromesso in cui si procede per piccoli, malfermi passi cercando di dotarsi nel frattempo di un’idea di mondo, l’occidente ha a che fare con sfumature differenti di dittature, con islam variamente moderati, con derive autoritarie definite da un estremismo religioso. Il golpe-non-golpe in Turchia ha svelato ipocrisie e imbarazzi che esistono da molto tempo – la deriva autoritaria di Recep Tayyip Erdogan è iniziata anni fa, oggi fa spavento con quelle cifre da purga implacabile, ma non è nuova – lasciando la comunità internazionale a interrogarsi (in silenzio) su quale fosse l’esito più rassicurante di una vicenda tanto confusa. Si è scommesso su Erdogan, così come un anno fa si è scommesso sull’Iran, andando a caccia di una stabilizzazione che in realtà non si è mai concretizzata: non siamo più stabili, siamo semplicemente più soli. I tanti commentatori che negli anni della guerra in Iraq speravano in una remissione dell’imperialismo americano, sognando un mondo in cui la superpotenza non fosse più così super, sono stati accontentati: l’America è un po’ meno guida, ma nel vuoto il tasso di successo delle scommesse s’è abbassato.

 

Prendiamo l’Iran. Nessuno considera la Repubblica islamica una leadership moderata, lo stesso presidente americano Barack Obama ha più volte ripetuto che Teheran è uno sponsor del terrorismo internazionale e che ogni apertura nei suoi confronti deve avere un riscontro, una verifica, per poter procedere nello sdoganamento completo. Ma ripulendo la guida iraniana da ogni suo afflato religioso – che essendo questa guida il frutto di una Rivoluzione islamica è di per sé un controsenso – s’è scommesso sulla volontà iraniana di rientrare nel consesso internazionale, di porre fine all’isolamento, di rivendersi nella sua forma, appunto, moderata. In questi ultimi giorni i giornali americani si sono dedicati al primo anniversario dello “storico” deal firmato all’inizio del luglio scorso che ha sancito l’adesione da parte di Teheran a una road map di contenimento del programma nucleare: pochi commentatori sono entrati nei dettagli (ha funzionato sì o no, questo deal?) per sottolineare la capacità visionaria dell’Amministrazione Obama nel tirare giù quel muro (con l’Iran). Si vuole vincere la scommessa a tutti i costi insomma, anche se l’esito di questo anno di accordo è quantomeno controverso. Secondo molti report, e secondo il dipartimento di stato americano, l’Iran ha accettato di far controllare 19 mila centrifughe delle sue centrali (anche se i campioni che vengono analizzati dagli ispettori internazionali sono selezionati dalle autorità iraniane). Il 98 per cento dell’uranio arricchito (al livello di arricchimento più basso) è uscito dal paese sotto il controllo degli ispettori.

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Il dipartimento del Tesoro americano dice che l’Iran ha aperto 300 nuovi account nelle banche straniere, che ha negoziato miliardi in linee di credito internazionali e ha visto un consistente aumento degli investimenti stranieri (più europei che americani). Teheran si lamenta che molte delle sanzioni in vigore non sono state di fatto tolte, ma i dati del business iraniano dimostrano un accesso ai mercati di dimensioni inedite. Un report dell’Associated Press pubblicato lunedì denuncia però ancora una volta un passaggio importante dell’accordo negoziato con l’Iran dalle potenze straniere: dopo dieci anni dalla firma, Teheran potrà rimpiazzare le centrifughe più obsolete con altre nuove e più veloci – tra 2.500 e 3.000 centrifughe – che consentiranno di arricchire uranio a una velocità almeno doppia rispetto a quella attuale. “La preoccupazione è massima”, scrive l’agenzia nel suo report, e il fatto che la minaccia nucleare sia postposta di dieci anni non rassicura neppure i più miopi tra i leader politici. Nel frattempo sugli altri grandi temi che costituivano la base filosofica e strategica dell’accordo non si riscontrano passi in avanti. L’Iran ha continuato a testare missili balistici – in più occasioni – in violazione degli accordi esistenti, il record dei diritti umani non è migliorato, la stabilizzazione nella regione mediorientale non è avvenuta (Teheran continua a essere un partner fuori controllo, e operativissimo, nella guerra in Iraq e in Siria) e le chance della presidenza cosiddetta moderata di Hassan Rohani non si sono ancora concretizzate in alcunché, né dal punto di vista istituzionale né da quello, ancor più importante, dell’apertura del regime.

 



Tehran. Donne leggono il Corano durante il mese di Ramadan (foto LaPresse)


 

L’Iran e la Turchia, in forme diverse, rappresentano gli esempi più eclatanti del tentativo occidentale di sostituire ad alleanze valoriali – impossibili, come stanno comprendendo bene sia la Nato sia l’Ue di fronte alla repressione di Erdogan – patti pragmatici in cui l’ispirazione islamica non conta, contano i soldi (sei miliardi alla Turchia per tenere a bada il flusso migratorio), i negoziati tecnici, l’illusione che si possa costruire una visione condivisa laddove non ce l’ha neppure l’occidente.

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