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Il Brennero e le disavventure della Heimat. Il cuore fragile d'Europa

Maurizio Crippa

Che cosa proteggono, gli austriaci e i tedeschi, al di là delle loro virtuali sbarre? L’idea (molto complicata) di che cosa debbano essere una nazione e una civiltà ben ordinate, la loro patria.

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Paolo Rumiz è un bravo viaggiatore che conosce bene i confini e le piccole patrie. Sabato scorso ha raccontato per Repubblica le sue traversate da ragazzo e poi di una vita intera del Brennero, e verso la fine ha scritto: “Dopo aver passato centinaia di volte questa frontiera, scusate se non me la sento di accusare l’Austria di troppa chiusura. Se Vienna ha sbagliato, è per troppa apertura”. Di là dal Brennero c’è l’Austria. Lontana, oltre quel nuovo muro di separatezza, per ora più virtuale che altro, che la divide dall’Italia e che  “taglia non solo l’Europa ma lo stesso Tirolo in due parti” e “fa assai più male del vecchio confine con la sbarra bianco-rossa”, per prendere a prestito ancora un attimo le parole di Rumiz.

 

Che cosa proteggono, gli austriaci, al di là della loro virtuale sbarra bianco-rossa? E che cosa tentano di salvare, più a nord, i loro fratelli più grossi, i tedeschi? Si dirà che intendono proteggere le stesse cose – integrità, sicurezza e pil nazionale – che vogliono difendere anche i francesi a Ventimiglia, gli spagnoli a Ceuta e tutti gli altri, italiani compresi. Ma l’Austria, con la Germania, rappresenta qualcosa di più. Dell’Europa sono il centro. Hanno un cuore più intimo ed esclusivo da difendere. O hanno sempre preteso di averlo. Qualcosa che ha a che fare con un’idea di purezza, se non della razza, almeno di un’indole. L’idea di che cosa debbano essere una nazione e una civiltà ben ordinate. Questa utopia, nelle culture tedesche e per osmosi un po’ bastarda nelle culture del centro Europa, si chiama Heimat, la patria. O la piccola patria. E c’è un’intera bibliografia per spiegare che il termine è intraducibile in italiano, e per spiegare altresì che noi manco ce l’abbiamo, un’idea di patria, quindi poco da dire e da capire. Possiamo soltanto invidiare o deprecare le Heimat degli altri.

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Dunque, senza rifare la bibliografia, basti sapere quand’è nata la parola: nella Germania di metà Ottocento che si unificava nella potenza ma perdeva il suo cuore piccolo e contadino, e non riusciva a rinnegarlo quel suo cuore di vetro, quelle sue identità separate eppure comuni, però sempre contrapposte agli “altri”. Possiamo invidiarlo, quell’insieme di affetti che vivono attorno alla casa, alla famiglia, alla terra dei padri e alle tradizioni (la religione è un substrato di humus un po’ equivoco, opaco). O possiamo deprecarlo: suvvia, nell’èra della globalità. E possiamo averne paura e orrore, perché sappiamo che quel vetro fragile che è la Heimat contiene anche due idee micidiali, “Sangue e Terra”, e tutto quello che ne consegue. Fine della filologia.
Resta l’attualità, che invece pone la domanda su quel che ci sia da difendere, come identità e separatezza, dentro ai confini.

 

In una situazione storica per molti versi – dal verso culturale, della socialità – già fuori controllo. Così fuori controllo che in Austria persino il sistema scolastico sta collassando, sotto il peso del 40 per cento di bambini che il tedesco non lo parlano e nemmeno lo capiscono. Rimettere un confine – tralasciamo per un attimo l’intelligence e Schengen – ha dunque la valenza simbolica di difendere un territorio che è un’identità. E oggi lo si fa, al Brennero o sul confine dell’Ungheria, con la disperazione di chi è consapevole che l’essenziale è già scappato, come i buoi, e non tornerà.

 

Lo scorso febbraio Claudio Magris, che quei territori d’Europa conosce molto bene, ha scritto per il Corriere un articolo acuto, iniziava ricordando che i proclami degli imperatori d’Absburgo cominciavano con un solenne “Ai miei popoli”. Appello pieno di senso e di tragica inutilità, come sappiamo. Scriveva Magris: “Alcuni ora si stupiscono di vedere che, nella chiusura di frontiere e nella costruzione di steccati e reticolati per respingere le ondate di migranti, si distinguano per particolare zelo gli stati nati dalla dissoluzione dell’impero absburgico, dall’Austria all’Ungheria alla Repubblica Ceca e a vari stati balcanici. Ciò è doloroso, ma non è tanto strano”. Non è strano, è che le rotte balcaniche dei migranti che cercano il cuore dell’Europa passano di lì. E quegli stati sono per l’appunto i luoghi in cui ha spesso allignato il peggio del nazionalismo e in cui l’idea moderna e utopica dell’Europa unita e senza barriere ha trovato terra più arida, e meno amorosa cura di giardinieri. Non è detto che siano le nazioni che possano far saltare il banco. Ma se c’è un punto debole, è quello. Più di Lesbo e Lampedusa. La Heimat, la patria meglio se è piccola, significa anche giuridicamente molte cose. Era il diritto di alloggio e di sepoltura, fino agli inizi del Novecento chi non godeva dei diritti di assistenza da parte della comunità era un senza-Heimat, uno straniero da respingere. Mentre lo Heimatrecht era una specie di precursore di ciò che oggi è il (contestato) diritto di cittadinanza. Inclusione ed esclusione giocano su questo confine invisibile.

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Gli “Heimatfilm” austriaci erano i film che nel Dopoguerra vendevano al popolo il mito consolatorio e montanaro di una patria felice e pre-moderna che non esisteva più da un pezzo, un po’ parente del nostro “Pastore Serafino”, un mondo bucolico che si era perduto nel pozzo nero di due guerre nazionalistiche e razziste. Chi si interessa anche solo da turista dell’alpinismo e della sua storia sa quanto abbia pesato il mito di una natura incontaminata da conquistare con gli scarponi, e di una terra difesa dalle sue vette e dalle sue valli – luoghi separati per antonomasia, come le isole – sull’elaborazione dell’idea di nazione. E successivamente sulle sue metastasi naziste. E’ una faccenda complicata, tant’è che interessa pure i liberi popoli svizzeri inventori della democrazia e del diritto d’asilo, che infatti hanno appena lanciato sul mercato, anno Domini 2016, le sigarette “Heimat”: le prime realizzate esclusivamente con tabacco coltivato sul suolo elvetico. Più cresce la minaccia a quello che siamo, o eravamo, più si alza il fumo della Heimat che vorremmo essere.

 

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Una scena del film "Heimat" di Edgar Reitz


 

Non è un caso se la letteratura di lingua tedesca contemporanea, con romanzi da Il passo del gambero di Günther Grass in giù, sia tornata spesso, soprattutto dopo la Riunificazione, a riflettere con toni mitici sulla Heimat, sul bisogno di rielaborare il senso di disorientamento e di disillusione che il “nuovo” e la nuova “Germania migliore”, e l’Europa hanno portato con sé. Heimat è anche il titolo del fluviale film-odissea prodotto dalla televisione pubblica tedesca, diviso in trentadue episodi e in quattro blocchi per un totale di quasi sessanta ore di cinema, con cui a partire dai primi anni 80 e fino al 2013 il regista Edgar Reitz ha indagato e raccontato la storia tedesca dal 1919 alla Riunificazione. Interrogandosi tra permanenza e perdita, mutazione e perversione dell’anima  del suo paese. Ma sempre raccontando dal punto di vista di un solo luogo che tutto genera: la stessa casa, lo stesso villaggio, la stessa famiglia, gli stessi campi. La necessità di avere radici e insieme di andare via, rimanendo tragicamente, e a tratti felicemente, fedeli alla propria Heimat. E’ uno dei capolavori maggiori che il cinema europeo abbia mai prodotto, una delle opere che meglio sono arrivate al cuore del problema dell’identità europea. L’ultimo capitolo, e non sarà senza significato, si intitola L’altra Heimat - Cronaca di un sogno ed è un “prequel” ambientato negli anni Quaranta dell’Ottocento, nel tragico periodo della carestia e della grande emigrazione del popolo tedesco verso il Brasile. Quando i “passeur” e gli scafisti erano imbroglioni che vendevano ai contadini della Renania titoli di proprietà e cittadinanza di una terra lontana e inesistente.

 



 

Ma questi sono cinema e letteratura. La realtà parla di una Germania che negli ultimi quindici anni Angela Merkel ha provato a modernizzare, anche mandando al macero quel po’ di nazionalismo arcaico che era della vecchia Cdu e del suo mito unificatore, per fare della Germania il motore di un continente aperto. E adesso si ritrova a fare i conti con gli stessi eterni fantasmi della terra dei padri. E da lì, come su una nave dei folli, l’incertezza parte alla volta del resto d’Europa. La Heimat è la formula smarrita per fondere un cuore di vetro senza cui è impossibile coesistere e trovare prosperità, come nel paese dei vetrai di un vecchio film di Werner Herzog. Ma una volta che lo si è ritrovato, questo cuore di vetro, è così difficile e pericoloso da maneggiare.

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