La bandiera della Nuova Zelanda

La Nuova Zelanda dimostra che in alcuni paesi la propria bandiera è ancora garanzia d'identità

Maurizio Stefanini
Union Jack batte Silver Fern. Nessuna sorpresa: il paese riconferma il suo legame con l'occidente. Cosa c'è dietro il referendum di oggi: tra minaccia demografica, economia e cultura

Union Jack batte Silver Fern, 56,74 a 43,26 per cento. Con oltre 1,2 milioni di voti contro i 900 mila contrari, i neozelandesi hanno deciso di tenersi la bandiera che alla costellazione della Croce del Sud in campo azzurro affianca il vessillo della madrepatria britannica, piuttosto che la felce d’argento con bordo nero che era stata prescelta come possibile alternativa.

 

Il processo era stato laborioso. Il primo ministro John Phillip Key, leader del partito nazionalista, aveva promesso il referendum nella campagna elettorale con cui nel 2014 aveva conquistato il suo terzo mandato. E il processo era iniziato con un concorso per il quale, il 16 luglio 2015, erano stati presentati 10,292 disegni. Tra questi, una commissione ne ha selezionati prima 40 e poi quattro, sottoposti a un primo referendum. Ci sono volute tre settimane, perché il voto è avvenuto per corrispondenza. “Se la bandiera della Nuova Zelanda dovesse cambiare, quale bandiera preferireste?”, era la domanda formulata e sottoposta a referendum. Con i primi voti è stata eliminata subito quella del Koru che in maori significa “spirale”, un antico simbolo indigeno in bianco e nero che rappresenta la fronda di una felce. Monocromo, e ribattezzato subito dai social media “ipnobandiera”, ha avuto solo il 3,78 per cento. Alla seconda votazione, è uscita dal ballottaggio col 7,13 per cento il Silver Fern (Black & White). Alla fine è arrivato ultimo,  col 10,9 per cento delle preferenze, il Red Peak, un triangolo bianco su uno rosso con i bordi superiori in nero e azzurro, pieno di colore, ma astratto. Allo spareggio finale, con il 50,58 contro il 49,42, la Silver Fern (Black, White & Blue) era infine prevalsa sulla Silver Fern (Red, White & Blue), che ripeteva lo stesso disegno della prima ma con colori diversi. Più allegra, probabilmente, ma il nero è tradizionalmente associato alle maglie degli atleti neozelandesi, così come la felce d’argento, usata anche dai soldati in varie guerre (la pianta fu per secoli il principale nutrimento per i colonizzatori maori dell’arcipelago). Un “simbolo della vita” nel senso più letterale del termine.

 


Da sinistra a destra, in ordine di eliminazione. Prima riga: Koru, Silver Fern black&white; seconda riga: Red Peak, Silver Fern red, white&black, Silver Fern black, white&blu


 

Una procedura ultra-democratica che è costata ben 15,5 milioni di euro, e che ha però lasciato tutto come prima. Quello neozelandese, però, non è stato il primo referendum legato al problema delle relazioni tra i paesi dell'Oceania e il Commonwealth. In Australia nel 1999, un referendum repubblicano fu organizzato con molto clamore nel 1999, ma finì a sorpresa col 54,87 per cento di voti a favore della Regina Elisabetta. Paesi di lingua inglese a bassa popolazione all’altro capo del mondo, Australia e Nuova Zelanda si trovano a fronteggiare da una parte la possibilità di essere assorbite dall’impero economico e culturale degli Stati Uniti; dall’altra, la prospettiva di venire demograficamente sommerse dall’immigrazione asiatica. Non a caso, sia l’Australia sia la Nuova Zelanda sono in prima linea ogni volta che l’occidente si mobilita, e vedono con preoccupazione i disastri del multiculturalismo europeo. In questa chiave, anche la bandiera e la dinastia della ex madrepatria, più che disturbare, possono essere in realtà un importante strumento di garanzia identitaria.  

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