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Uno sguardo positivo

Perché il pil record degli Stati Uniti smentisce l’impianto cupo dell’agenda trumpiana

Stefano Cingolani

Le previsioni del Fondo monetario internazionale infondono un po' di ottimismo: l’economia va, spinta dalla locomotiva americana

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“A dispetto delle fosche previsioni, l’economia globale resta notevolmente resiliente con una crescita costante e una inflazione che rallenta quasi tanto velocemente quanto era cresciuta”: è questo il messaggio del Fondo monetario internazionale che ieri a Washington ha diffuso il suo outlook di primavera. Tra le fosche previsioni c’erano anche le due guerre, in Ucraina e a Gaza, oggi potremmo aggiungere il rischio che il conflitto in Medio Oriente diventi una deflagrazione ben più grande. Mettiamoci l’interruzione della catena delle forniture, la crisi energetica e quella del grano dopo l’invasione russa dell’Ucraina, i blocchi navali e la guerra corsara nel Mar Rosso. Eppure l’economia va, spinta dalla locomotiva americana. Gli Stati Uniti viaggiano a ritmo doppio rispetto ai paesi del G7: +2,7 per cento quest’anno, +0,8 nell’area euro, +0,5 nel Regno Unito e +0,9 in Giappone. La Cina sta manifestando segni di ripresa dopo gli anni di prostrazione post Covid (il Fmi prevede +4,6 per cento quest’anno); tuttavia la macchina mondiale sembra proprio trovarsi nella patria del capitalismo. E’ conseguenza di fattori entrati in gioco dopo l’uscita alla grande crisi finanziaria del 2008-2010, e talvolta anche grazie a come se ne è usciti.

Il Fmi sottolinea le componenti congiunturali e stima che nel biennio 2024-2025 il pil mondiale aumenterà del 3,2 per cento, circa un punto in più rispetto al 2022. La crescita e una rapida disinflazione avranno un impatto favorevole dal lato dell’offerta dei fattori produttivi, dall’energia al lavoro. I rischi restano, il pil non aumenta dappertutto allo stesso modo, quindi c’è il rischio di aumentare i divari esistenti soprattutto con l’Europa e dentro l’Europa. Se in America l’economia è calda, nel Vecchio Continente è ancora fredda, sia dal lato dei consumi sia da quello degli investimenti. Sarebbe bene, dunque, che la Bce allentasse la cinghia. L’inflazione non è ancora debellata, le banche centrali dovranno restare vigilanti, calibrando con attenzione il sostegno al ciclo produttivo e la riduzione dei prezzi. Il Fmi insiste che occorre un consolidamento fiscale nei paesi con i conti in deficit e in generale una riduzione dei debiti pubblici. Tutte raccomandazioni sagge ai limiti dell’ovvio. Tuttavia non va posto qui l’accento per capire a che punto siamo.

Quel che colpisce di più è la buona salute dell’economia americana che, scrive il Fmi, “riflette una robusta crescita della produttività, dell’occupazione, dei salari”. Ciò potrebbe creare un surriscaldamento e mantenere viva l’inflazione, di qui la cautela della Federal Reserve. Il Fondo evita giudizi politici, ma le sue previsioni rafforzano la domanda: è la Bidenomics alla base del boom? E come mai le cose vanno così bene, ma fa presa il declinismo trumpiano? Maga sembra una parola d’ordine inattuale, l’America è già tornata di nuovo grande. La spinta che deriva dai massicci investimenti pubblici e dai sostegni produttivi c’è stata. L’Ira (Inflation reduction act) ha contribuito, ma solo in parte. Bisogna infatti guardare agli anni prima del Covid. Il pil americano ha recuperato pienamente, anche grazie alla travolgente corsa all’innovazione tecnologica che ha portato Wall Street a record assoluti. Big Data non ha lavorato solo per sé. Siccome quello americano è un capitalismo di massa, non di e per pochi ricchi soltanto, la ricchezza finanziaria è entrata nei portafogli della classe media che non sembra in via di proletarizzazione al contrario di un diffuso luogo comune. Dal lato dell’offerta ha dato un certo contributo il rimpatrio di pezzi della catena produttiva aumentando posti di lavoro e redditi.

C’è poi la doppia transizione energetica. La prima ha trasformato gli Stati Uniti da paese dipendente a primo esportatore mondiale di gas e petrolio, superando l’Arabia Saudita e la Russia. Ciò ha cambiato radicalmente anche i rapporti di forza, persino geopolitici. Se l’attacco iraniano a Israele non ha scatenato una crisi petrolifera (almeno finora) è dovuto in buona parte a questi equilibri ben diversi dal passato. La seconda transizione, quella elettrico-ecologica, è ancora in corso tra alti e bassi, ma trascina con sé innovazione e produttività, le due molle del nuovo balzo in avanti americano.

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