(foto Ansa)

l'altra industria

Due dati di giornata per parlare di touristification senza demagogia

Dario Di Vico

A Milano ad aprile il flusso di stranieri arrivati in città è cresciuto del 25 per cento rispetto a un anno fa. E nel bimestre marzo aprile solo nel turismo sono stati creati 40mila nuovi posti di lavoro. Ragioni per affrontare la crescita (e i limiti) del settore

Due dati di giornata ci inducono a parlare di nuovo di turismo. A Milano il flusso di stranieri arrivato in città (aprile su aprile) è aumentato in un anno del 25 per cento e nel primo quadrimestre del ‘23 gli arrivi sono saliti alla cifra-record di 2,5 milioni di persone, nettamente sopra ai numeri del 2019 considerato a suo tempo l’eldorado del turismo ambrosiano. A marzo e aprile secondo un report Ministero del Lavoro/Bankitalia/Anpal sono stati creati 100 mila nuovi posti di lavoro di cui 40 mila nel solo turismo. Ora sappiamo bene che l’economia dei viaggi non è mai stata presa sufficientemente sul serio dagli scienziati della materia, la si è considerata quasi sempre come la porzione meno nobile del settore dei servizi. In fondo gli economisti sono rimasti sempre dell’idea che il turismo fosse nella sua totalità un’attività mordi-e-fuggi, i suoi benefici non fossero più che tanto duraturi e non valesse indagare con pignoleria attorno alle sue performance e alle sue ricadute strutturali (ce ne saranno pure!). Poi c’è stato il Covid, l’interruzione traumatica dei viaggi e in sequenza la ripresa della mobilità. Che per quanto riguarda il nostro Paese è stata di segno duplice: da una parte sono tornati via via i turisti stranieri e ora anche americani e cinesi in gran quantità, dall’altra la mobilità ha scalato la gerarchia dei valori primari e dei consumi irrinunciabili e abbiamo registrato un costante flusso interno di connazionali che magari prendono il destro per visitare per la prima volta le medie città della penisola (Trieste e Bergamo sono due casi classici) che avevano colpevolmente trascurato in passato. In più la domanda di turismo ha accentuato di molto la sua segmentazione: ci si muove non più solo per i monumenti, i musei e lo skyline delle città ma ci si sposta per giocare a golf, per visitare le cantine, per gareggiare con la mountain bike, per un week end dedicato alla gastronomia. E questo vale sia per la domanda straniera che per gli italiani in gita.

 

Di fronte a tanto ben di Dio l’opinione pubblica avvertita e la scienza economica sono quasi spaesate. Non possono fare spallucce né riproporre l’idea dell’irrilevanza del fenomeno e il dibattito così finisce per appuntarsi più sugli effetti dei maxi-flussi turistici che sull’analisi del fenomeno in sé e delle sue potenzialità sistemiche. Da qui le (giuste) reprimende sui rischi dell’overtourism che affligge le nostre città d’arte e non trova risposte credibili in termini di governo degli ingressi e di salvaguardia del bene pubblico. Ma più di recente si sono anche surriscaldate le polemiche sulla cosiddetta touristification ovvero sulle conseguenze negative che massicci flussi di moderni pellegrini hanno sulle condizioni di vita dei residenti e persino sulle disuguaglianze sociali. Quest’ultimo filone è stato indubbiamente favorito dall’incremento parallelo del numero dei visitatori e dei livelli di inflazione e ha portato alla conclusione che gli operatori economici in qualche maniera usano gli stranieri e gli italiani mobili come una sorta di rendita di posizione, che consente loro di alzare inopinatamente i prezzi e di lucrare sulla voglia di viaggiare e divertirsi del popolo dei selfie. Altro tema che tiene banco in Italia è la relazione tra l’aumento delle case offerte per affitti brevi e la carenza di appartamenti immessi a prezzo equo sul mercato cittadino. L’argomento è così pervasivo che il principale indiziato, Airbnb, ha pensato bene di lanciare una campagna di advertising sui giornali per mettere le mani avanti e dirsi pregiudizialmente favorevole a una norma di regolamentazione della materia, quasi non la temesse per nulla. Insomma il turismo nella sua patologia, potremmo dire, è tema che mobilita l’intellighenzia, anima le discussioni nei salotti e appassiona i lettori dei giornali. Ma sempre o quasi in chiave negativa. La curvatura che non emerge e resta nell’ombra riguarda ciò le potenzialità espresse/inespresse e i due dati di ieri – Milano e i posti di lavoro –, pur nella loro casualità, illuminano questa lacuna. 

 

C’è da ragionare, ad esempio, sull’evoluzione dell’offerta alberghiera. Dopo il ponte del 25 aprile il sindaco di Bari, Antonio Decaro, ha fatto presente che le strutture esistenti erano state riempite nei giorni precedenti al 97% e ha invitato gli operatori a investire in nuovi hotel nel centro città e a ristrutturare tempestivamente quelli chiusi al tempo del lockdown. La tendenza del mercato, almeno a quello che si registra, va verso l’apertura di nuovi alberghi di lusso e sono le grandi catene a monopolizzare l’operazione ma visto l’interesse turistico che generano le città medie c’è evidente necessità di rilanciare anche l’offerta rivolta al ceto medio-alto italiano che ama sempre di più spostarsi. La segmentazione della domanda turistica, poi, richiede un’offerta più accurata e coerente e ci interroga sulla qualità del capitale umano dell’industria turistica made in Italy. Che non pare eccelsa, che ha davanti a sé una severa crisi di vocazioni, che offre spesso lavoro povero e poche prospettive di carriera. Per farla breve gli argomenti da affrontare per chi si volesse cimentare in una riflessione construens non mancano, ci vuole solo la volontà di affrontarli. Il Piano Strategico 2023-2027 che il governo ha presentato all’esame delle Camere potrebbe essere con tutta evidenza un’occasione per istruire questo dibattito ma per ora non pare proprio che stia andando così.

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