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New York cerca casa. Chi sono i protagonisti della rinascita post pandemia

Marco Bardazzi

Così si supera la crisi abitativa: trasformando gli uffici vuoti in appartamenti. 

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Nella New York pre-Covid, se menzionavi il nome “Nathan” quasi tutti lo associavano a un hot dog. Merito di Nathan Handwerker, un ebreo polacco immigrato negli Stati Uniti da piccolo, che nel 1916 aveva aperto un chiosco a Coney Island diventato il tempio dei panini con il wurstel simbolo dell’America. “Nathan’s” c’è ancora, in mezzo alle montagne russe e alle attrazioni del luna park permanente di Coney Island. Anzi, adesso il chiosco affacciato sulla spiaggia all’estremità sud di Brooklyn è parte di una catena mondiale che porta lo stesso nome, presente in 198 città in una ventina di paesi e con 13 mila dipendenti. Ma se a Manhattan di questi tempi dici “Nathan”, in molti pensano a un altro immigrato ebreo, uno arrivato dall’Ucraina quando aveva quattordici anni, oggi un sessantatreenne imprenditore di successo. Perché New York dopo gli anni del Covid è di nuovo da reinventare, per l’ennesima volta nella sua storia. E per farlo, la persona che tutti cercano è Nathan Berman.  

 

Gli sguardi di tutti si sono concentrati su Nathan Berman, imprenditore specializzato nel recupero di uffici vuoti in eleganti appartamenti

 
Da un quarto di secolo Berman si è specializzato in un business che finora sembrava marginale: trasformare i palazzi per uffici in eleganti condomini residenziali. La sua società, Metro Loft, nel corso degli anni ha preso possesso di storici edifici nel distretto finanziario di Manhattan abbandonati dalle società di Wall Street che si spostavano in nuovissimi grattacieli sempre più sofisticati. I palazzi Art Deco lasciati vuoti da Goldman Sachs e dalle banche nelle strade intorno alla Borsa sono stati svuotati, ridisegnati e trasformati da Berman in complessi residenziali con centinaia di appartamenti che si affacciano su Exchange Place, Wall Street e Broad Street. Pareva un’attività di nicchia, che aveva comunque reso ricco l’ex immigrato ucraino quando la zona di Lower Manhattan era stata ripensata dopo il crollo delle Torri Gemelle, per trasformarsi in un quartiere residenziale invece che in un enorme distretto per uffici che diventava deserto dopo le sei del pomeriggio e nei weekend. 

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Manhattan ha troppe poche case per chi vorrebbe viverla senza essere milionario. Il sindaco Adams ha creato una commissione di studio

  
Poi è arrivato il Covid e New York prima si è svuotata, poi ha cominciato a rinascere, ma con uno spirito diverso. Stufi dei ritmi di vita della metropoli e soprattutto dei prezzi fuori controllo, molti hanno approfittato del lavoro a distanza per dare l’addio agli uffici. Le aziende hanno scoperto che si può mandare avanti l’attività anche con le persone collegate da casa e hanno disdetto gli affitti dei propri spazi di lavoro. Risultato: oggi Manhattan ha troppi uffici vuoti e troppe poche case per chi vorrebbe viverla senza essere un milionario. Il sindaco Eric Adams ha creato una commissione di studio incaricata di immaginare la new New York City e il verdetto è stato netto e in apparenza semplice: occorre convertire gli uffici in case. “C’è un disperato bisogno di abitazioni – ha detto Adams – e l’opportunità offerta dal sotto utilizzo degli spazi per uffici è chiara: sappiamo cosa bisogna fare”. 


In realtà lo si sa solo sulla carta. Quando i tecnici di City Hall hanno cominciato a guardarsi intorno, hanno scoperto che ben pochi hanno esperienza su come convertire i palazzi per uffici in condomini e che si tratta di un lavoro assai più complesso di quello che sembra. E gli sguardi di tutti si sono concentrati su Nathan Berman, d’un tratto uno degli uomini più ricercati della città. Uno che ha già sperimentato per anni la difficoltà di ripensare giganteschi open space pieni di cubicoli per trasformarli in appartamenti, sfidando i problemi legati alla presenza di finestre troppo piccole e che non si possono aprire, di ascensori che scarseggiano, di muri portanti pensati per altri scopi, di tubature e cablature da ridisegnare da zero. 


Con la consulenza di Berman e la supervisione di un architetto visionario come l’indo-americano Vishaan Chakrabarti, che negli anni del sindaco Michael Bloomberg ha già guidato il recupero di pezzi di città come la High Line e gli Hudson Yards, è partita ora la corsa a reinventare New York. C’è da trovare il modo di dare alla città mezzo milione di nuove abitazioni in dieci anni, convertendo tutto quello che si può convertire, per ripensare una metropoli diversa per gli anni Trenta del nostro secolo. Un’operazione gigantesca, che se andrà in porto fornirà spunti e idee a mezzo mondo, da Milano a Londra, da Mumbai a Tokyo. 
Ricominciare e reinventarsi non è certo una novità per New York. Un secolo fa, in piena età del jazz, la città si era lanciata in un frenetico ripensamento dando spazio alle auto – le nuove regine dello spazio metropolitano – e a grattacieli sempre più arditi. Poi era arrivato il crollo di Wall Street, che non aveva comunque impedito durante la Depressione di inaugurare l’Empire State Building e il grattacielo Chrysler. La metropoli aveva frenato e si era concentrata sui quartieri, sulla costruzione di spazi più vivibili e alla portata di tutti, da Brooklyn al Queens e al Bronx. Sotto la guida del sindaco italoamericano Fiorello La Guardia, aveva ritrovato una propria identità e posto le basi per il boom del secondo dopoguerra. Gli anni della New York di Jackson Pollock e Jack Kerouac, e poi quelli delle varie factory dove lavorava Andy Warhol e dei club al Greenwich Village dove cantava e suonava Bob Dylan. Da un punto di vista urbanistico e di sviluppo della città, erano stati soprattutto gli anni di Robert Moses, l’uomo dei ponti, dei tunnel, delle autostrade cittadine, delle grandi opere e delle grandi colate di cemento che hanno disegnato una larga parte della New York contemporanea. 

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Negli anni Settanta del secolo scorso, una nuova svolta. La città era praticamente in bancarotta, stremata, allo sbando. Era la giungla urbana che Hollywood raccontava con film come “I guerrieri della notte”, “Taxi Driver” o “Il giustiziere della notte”. L’alto tasso di disoccupazione, la crisi economica e il boom delle droghe avevano fatto di New York un luogo dove c’era timore a girare di notte e poca sicurezza anche di giorno. Il tasso di omicidi degli anni Settanta era di 24 persone ogni 100 mila abitanti, enormemente superiore alla media nazionale di 9 su 100 mila. La polizia era sottodimensionata, scoraggiata e anche corrotta (un altro film di successo dell’epoca, “Serpico” con Al Pacino, raccontava bene il fenomeno). Il caos dominava anche sotto il profilo dello sviluppo urbano. Il Bronx era abbandonato al suo destino di criminalità, le periferie erano terra di nessuno e a Manhattan si costruivano nuovi pezzi di città che sembravano slegati da tutto il resto: è il caso del World Trade Center, con le Torri Gemelle inaugurate tra il 1970 e il 1972 in un’area dove erano stati spianati interi vecchi quartieri. 

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Ancora una volta c’era da reinventare New York e il primo a riuscire a dare una svolta era stato il sindaco democratico Ed Koch. La sua amministrazione aveva cercato di ricostruire il tessuto delle comunità locali, coinvolgere la gente nel prendersi cura del proprio quartiere e nello stesso tempo rilanciare l’economia e il turismo. Tra i tanti segnali di svolta di quegli anni ci fu il concerto a Central Park che riunì nel 1981 Paul Simon e Art Garfunkel, i due ex ragazzi del Queens che da un decennio a malapena si parlavano: in una serata memorabile, dopo aver ringraziato il sindaco Koch dal palco, si esibirono davanti a un pubblico di 500 mila persone che da quel momento tornò a impossessarsi di un parco fino ad allora considerato terra di nessuno dopo il tramonto. 


Ma per reinventare davvero New York c’era bisogno di renderla sicura e riportare business e turisti in città. E’ il compito che svolse un altro sindaco, il repubblicano Rudy Giuliani, lo sceriffo degli anni Novanta che impose un approccio da “tolleranza zero”, fatto di rafforzamento dei poteri della polizia, ma anche di linea dura sui piccoli gesti quotidiani che davano la percezione di una città fuori controllo. Entrare in metropolitana senza pagare, gettare rifiuti sui marciapiedi, rompere vetri per divertimento negli edifici disabitati, perfino pulire il parabrezza delle auto ai semafori, divennero tutte attività che facevano finire in cella. 
Contestata all’epoca, la linea dell’amministrazione Giuliani a distanza di decenni risulta essere stata provvidenziale per New York. Unita alla forte ripresa economica degli anni dell’America guidata da Bill Clinton e al rilancio di tante zone della città che erano state trascurate a lungo, è diventata un modello ripetuto in molte altre città, a partire dall’utilizzo di nuovi metodi di raccolta dei dati per combattere il crimine.

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Gli anni di Giuliani sono stati quelli della rinascita di Times Square, che da decenni era diventata una specie di quartiere a luci rosse, della ripartenza di Midtown, della totale riconquista di Central Park e del ritorno in massa dei turisti e delle aziende disposte ad aprire il proprio quartier generale a New York. Il boom della “new economy” aveva reso la città ricchissima, ma all’apice di questa ennesima reinvenzione erano arrivati due colpi devastanti. Il primo era stato nel 2000 lo scoppio della cosiddetta bolla “dot-com”, la fine della fase pionieristica dell’èra digitale, che aveva lasciato molti sul lastrico. Il secondo colpo lo avevano inferto i terroristi di Osama bin Laden con l’attacco dell’11 settembre 2001. 

 

La lunga storia di rinascita della città vede protagonisti i sindaci Koch, Bloomberg e Giuliani. Poi il periodo nero di Bill de Blasio

  
Quando Michael Bloomberg, successore di Giuliani, aveva preso le redini della città all’inizio del 2002, lo scenario era scoraggiante. Non solo per le rovine ancora fumanti di Ground Zero. Nei tre mesi dopo l’attacco New York aveva perso 430 mila posti di lavoro, erano scomparsi 2,8 miliardi di dollari di salari, il pil cittadino era calato di 11,5 miliardi di dollari rispetto all’anno precedente e di conseguenza erano svaniti due miliardi di dollari di tasse destinate ai lavori pubblici. Nell’area intorno all’ex World Trade Center erano scomparse 18 mila attività commerciali e gli spazi per uffici e abitazioni erano al 40 per cento abbandonati. Il turismo, che impiegava 263 mila persone e generava 25 miliardi di dollari di ricavi l’anno, era calato di oltre il 50 per cento. 


Poteva finire con un inesorabile declino, come a Detroit con la crisi dell’industria dell’auto o a Pittsburgh con il ridimensionamento di quella dell’acciaio. Invece è stata l’occasione di un’altra rinascita, forse la più sorprendente di tutte e ancora non del tutto studiata. I dodici anni di amministrazione di Bloomberg sono stati un caso di successo che ha dell’incredibile. La portata di quello che è stato fatto la si capisce leggendo “Greater than ever”, il libro di memorie che ha scritto il vice di Bloomberg, Daniel Doctoroff, il vero stratega della rinascita. Neppure il crac di Lehman Brothers e il crollo della Borsa nel 2008 hanno fermato una trasformazione che ha disegnato una nuova città. 


L’elenco delle opere realizzate è lunghissimo, ma soprattutto colpisce come siano tutti tasselli di una ben precisa idea di metropoli moderna. Dal nuovo stadio degli Yankees nel Bronx a quello, altrettanto nuovo, dei Mets nel Queens. La rinascita dei parchi di Brooklyn affacciati sull’East River e l’esplosione del quartiere Dumbo. I nuovi distretti molto cool di Greenpoint e Williamsburg e quelli tech del Brooklyn Navy Yard. Il Barclays Center, casa dei Brooklyn Nets, e la nuova Lower Manhattan piena di residenti, attrazioni, locali e turisti. Il West Side trasformato da zona di moli e depositi abbandonati a percorso “green” cittadino. La High Line e gli Hudson Yards. E ancora il piano PlaNYC di Doctoroff, un innovativo progetto urbano in 127 punti che ha posto le basi per una metropoli ecosostenibile, con l’obiettivo di una riduzione del 30 per cento delle emissioni entro il 2030. Un piano che ha dato vita ad aree pedonali, piste ciclabili, parchi lungo i corsi d’acqua. Il tutto avviato insieme al più vasto programma di edilizia residenziale a prezzi contenuti che sia mai stato lanciato da una grande città americana.

  

L’esplosione di homeless, che non possono permettersi gli affitti e non hanno un tetto né un lavoro, non è solo colpa del Covid

  
L’interrogativo a questo punto è: ma allora perché oggi è di nuovo in crisi? Perché mancano le abitazioni e le uniche nuove costruzioni residenziali sono i grattacieli “super slim” con vista su Central Park per miliardari? Perché l’esplosione di homeless, che non possono permettersi gli affitti e non hanno un tetto né un lavoro? Non è solo colpa del Covid, ma anche di un altro “virus” che ha colpito New York negli anni dopo Bloomberg: l’amministrazione di Bill de Blasio, uno dei peggiori sindaci nella storia recente della città. Otto anni di approccio ideologico, mancanza di visione, criminalizzazione del mondo del business senza saper costruire alcuna alternativa. Un periodo nero sul quale alla fine è piombata la crisi del Covid per dare il colpo di grazia. 


Adesso c’è da reinventare ancora una volta New York, partendo dalla situazione abitativa che ha raggiunto numeri allarmanti. Il costo delle abitazioni è salito del 50 per cento solo negli ultimi sette anni. La popolazione afroamericana, quella più debole, è calata del nove per cento tra il 2000 e il 2020 per effetto di un continuo esodo dalla città. I mutui hanno tassi d’interesse saliti alle stelle e affittare è proibitivo: l’affitto medio pagato da un newyorchese nel 2022 è stato di 5.345 dollari al mese, rispetto ai 4.460 dollari al mese nel 2021.


Le ricette per dare una svolta e rendere New York di nuovo abitabile anche per chi non è un milionario, sono sostanzialmente due. C’è quella del sindaco Adams, che vuole trasformare gli uffici in residenze visto che non c’è spazio per costruire nuove case. E’ l’approccio ispirato a Nathan Berman, che ora dovrà essere però testato per capire quanto sia davvero realizzabile e quanto possa incidere in un piano che punta a creare mezzo milione di nuove case. 


E poi c’è la proposta-choc della nuova governatrice dello stato di New York, Kathy Hochul, che invece punta sui sobborghi e sui tanti piccoli centri abitati intorno alla metropoli. Qui dominano le villette e sono sempre state imposte leggi urbanistiche che riducono al minimo la possibilità di costruire. Hochul ha tirato fuori un piano che prevede di dar vita a 800 mila nuove case nei sobborghi nel giro di un decennio. I sindaci della zona sono già tutti in rivolta. I residenti ricchi, democratici e benpensanti che l’hanno eletta sono furibondi e la governatrice si gioca il futuro in politica. Ma la reinvenzione di New York passa anche di qui e potrebbe portare a una metropoli nuova, decentrata, e sicuramente ancora una volta sorprendente.  

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