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L'analisi

Dal Rdc alla Mia: il punto debole della riforma è l’occupabilità

Maurizio Del Conte

I criteri scelti dal governo per stabilire chi sia avviabile o meno al lavoro appaiono paradossali. E contrastano, oltre che col senso comune, anche con le politiche europee

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Tra indiscrezioni di stampa e bozze ufficiose, i contorni del decreto che metterà fine al Reddito di cittadinanza per sostituirlo con la “Misura per l’inclusione attiva” (Mia) sembrano ormai definiti. Tra le principali novità del provvedimento che il governo si appresta a varare ce n’è una che riguarderà tutti i potenziali beneficiari, indipendentemente dal percorso (di inclusione sociale o di attivazione lavorativa) al quale verranno indirizzati. Si tratta della riduzione del valore dell’Isee, che verrà abbassato a 7.200 euro dai 9.360 euro previsti oggi per il Reddito di cittadinanza. Una modifica volta – evidentemente – a ridurre la platea complessiva degli aventi diritto e, quindi, ad alleggerire la spesa destinata al nuovo sussidio. Una volta soddisfatti i nuovi requisiti reddituali, ai beneficiari della Mia si prospetteranno due percorsi alternativi: l’avvio ai servizi sociali oppure l’indirizzamento ai centri per l’impiego, per la sottoscrizione del patto di servizio personalizzato finalizzato all’inserimento lavorativo.

 

Nella previsione di due distinti binari per il trattamento dei beneficiari dei sussidi non c’è niente di nuovo rispetto all’impianto del vecchio Reddito di cittadinanza. Senonché ai due diversi percorsi corrisponderanno entità e durata del sussidio marcatamente asimmetriche. Se, infatti, chi verrà assegnato al percorso di inclusione sociale godrà di un trattamento complessivamente non dissimile da quello già riservato ai percettori di Reddito di cittadinanza, molto più restrittive saranno le condizioni riservate alla platea di beneficiari destinati al percorso di riattivazione lavorativa. Per questi ultimi, il beneficio sarà riconosciuto nella misura ridotta del 25 per cento e comunque per un periodo non superiore a 12 mesi. Decorsi i 12 mesi, previa sospensione di un mese, il beneficio potrà essere rinnovato per un periodo ulteriore di sei mesi. Dopodiché dovranno trascorrere altri 18 mesi prima di poter presentare una nuova domanda.

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È di tutta evidenza come alla base di questo meccanismo ci sia la volontà di ridurre quanto più possibile il sussidio per chi sia ritenuto pronto per essere avviato al lavoro o, come è stato detto, “occupabile”. Essendo così rilevante la differenza di trattamento tra i due percorsi, diventa cruciale il criterio utilizzato per stabilire l’accesso all’uno o all’altro. E proprio su questo aspetto l’intero provvedimento rischia di non reggere, né sotto il profilo della razionalità né sotto quello della costituzionalità. Viene, infatti previsto che al percorso per l’inserimento lavorativo vadano automaticamente avviati i nuclei famigliari al cui interno non vi sia un componente con disabilità o minorenne o con almeno sessant’anni di età. In altri termini, si stabilisce per legge una presunzione assoluta di non occupabilità per chi abbia all’interno del proprio nucleo famigliare un minore a carico o un ultrasessantenne. Una presunzione paradossale che, oltre a fare a pugni con la realtà, finisce per discriminare proprio quelle famiglie che si vorrebbe sostenere. Con questo criterio di selezione, infatti, i genitori di figli minorenni dovranno obbligatoriamente essere avviati ai servizi sociali anziché alla formazione professionale o ai servizi di incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Ma i problemi non finiscono qui.

 

Sul versante opposto, stabilire la presunzione legale di occupabilità sulla base di elementi come la mancanza di figli a carico o la convivenza con un congiunto ultrasessantenne contraddice, oltre che il senso comune, uno dei pilastri fondamentali delle politiche europee a sostegno dell’occupazione. Fin dal 1997, con l’avvio della Strategia europea per l’occupazione, l’occupabilità è stata intesa in senso multidimensionale, come una condizione soggettiva della persona che si esprime in relazione a una serie di fattori specifici di contesto, da costruire e rafforzare proprio attraverso le politiche attive del lavoro e della formazione professionale. L’occupabilità individua una dimensione relativa e graduata, dalla quale si può misurare la distanza della persona dal mercato del lavoro. Solo per fare un esempio: una giovane coppia di ingegneri, genitori di due figli, che vive nel settentrione d’Italia ha un livello di occupabilità molto superiore a quello di un cinquantenne senza carichi di famiglia, ma con bassa scolarità, che vive nel mezzogiorno. A livello europeo e internazionale sono state elaborate diverse metodologie per valutare l’occupabilità e numerosi strumenti per migliorarla. Una legge che riducesse l’occupabilità ai carichi di famiglia rischierebbe di porre il nostro paese fuori dal contesto di riferimento europeo. E, in piena fase di attuazione del Pnrr, è un rischio che proprio non ci possiamo permettere.

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