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Quello che gli ambientalisti non capiscono quando parlano di fonti fossili

Alberto Clò

Costruire un futuro senza le fonti fossili non libera tuttavia il mondo dalla responsabilità di evitare un futuro “vuoto d’offerta” qualora ve ne fosse ancora necessità col rischio di creare profonde tensioni sui mercati come quelle sperimentate nel 2021

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I primi dati del consuntivo 2022 mostrano una leggera crescita dei consumi mondiali di energia (+1 per cento), in parallelo alla contrazione della crescita delle economie. In questo contesto, si è registrato un forte aumento delle rinnovabili elettriche a fronte però di una inattesa resilienza delle fonti fossili che dovrebbero aver soddisfatto oltre l’80 per cento dei complessivi consumi mondiali, contribuendo all’ulteriore crescita delle emissioni. Il carbone ha toccato un nuovo record di consumi superando gli otto miliardi di tonnellate, col sorprendente contributo dell’ipocrita Europa (+6 per cento) per ridurre i prelievi del gas russo; il petrolio è tornato sui livelli pre-pandemia che dovrebbe superare nei prossimi mesi; mentre solo il gas naturale ha registrato una leggera contrazione dei consumi, non per l’incalzare della transizione energetica, ma  per la necessità di ridurli dopo la guerra ucraina.

 

All’origine della crisi energetica, esplosa nel 2021 ancor prima della guerra, è stata la scarsità di gas sui mercati internazionali causata dall’aumento della domanda a fronte di un’insufficiente capacità produttiva, dovuta al crollo degli investimenti minerari. Scarsità che ha consentito il ricatto del gas da parte di Mosca. Investimenti che le compagnie petrolifere sono però restie a riprendere per diverse ragioni ad iniziare dalle sempre più aggressive politiche dell’Europa (Fit for 55 e REPowerEU) e degli Stati Uniti con l’Inflation Reduction Act che ha stanziato 369 miliardi di dollari di sussidi a favore delle rinnovabili (nazionali). Investire rischiando di incorrere in ‘costi affondati’ porta le compagnie a preferire benefici agli azionisti. Dei 200 miliardi di profitti realizzati lo scorso anno dalle cinque maggiori solo una parte minoritaria si tradurrà in investimenti. La Chevron ne ha destinati 75 al riacquisto di azioni proprie.

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Costruire un futuro senza le fonti fossili non libera tuttavia il mondo dalla responsabilità di evitare un futuro “vuoto d’offerta” qualora ve ne fosse ancora necessità col rischio di creare profonde tensioni sui mercati come quelle sperimentate nel 2021. Mi spiego. Se immaginassimo per pura ipotesi che il mondo possa far a meno delle fonti fossili in pochi decenni – molti lo ritengono verosimile – ne deriverebbe che le loro industrie dovrebbero contrarre sin d’ora investimenti che andrebbero a frutto in quell’orizzonte temporale. Costruire nuove raffinerie, oleodotti, navi, centrali elettriche richiede enormi spese e lunghi tempi con una loro vita utile che si protrae oltre la metà del secolo indicata come data per l’obiettivo Net-Zero dei sistemi energetici.

  

Che accadrebbe se quell’ipotesi non si dimostrasse ex-post veritiera? Quali conseguenze si avrebbero se l’offerta di fonti fossili si dimostrasse insufficiente a soddisfare una domanda attesa comunque in forte crescita? Essendo ancora le fonti fossili, a partire dal petrolio, la base della moderna società – dalla mobilità alle pasticche fino ai fertilizzanti – eliminarle o anche solo drasticamente ridurle avrebbe enormi impatti sulla vita delle società e degli individui.

 

Una complessità che spiega la contraddizione tra la crescente consapevolezza dei governi circa la criticità della questione climatica e la loro incapacità ad adottare efficaci politiche di contrasto. Condizionare le dinamiche di mercato, le tendenze spontanee dell’economia, la ricerca di benessere individuale per piegarli a lontane pur se indiscutibili finalità di interesse generale esigerebbe un grado di legittimità e una fiducia nella lungimiranza delle decisioni dell’autorità e una capacità di coercizione, difficilmente ravvisabili nelle opinioni pubbliche di questi tempi. 

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