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Tra caro energia e rialzo dei tassi, come resiste l'impresa italiana

Valeria Manieri

Il periodo difficile, tra pandemia e guerra in Ucraina, ha imposto alle aziende nuove forme di organizzazione. Ma ora, per andare avanti, hanno bisogno di una Europa coesa e capace di pensare a lungo termine, che si tratti dei costi delle bollette, transizione green o investimenti per la nostra competitività

Le imprese italiane hanno avuto poche occasioni per rifiatare. Prima la pandemia con chiusure e cadute verticali di fatturato, oggi con due problemi enormi: costo dell’energia e dinamica inflattiva. L’inattesa follia russa in Ucraina è stata un’ulteriore prova di forza richiesta proprio quando iniziavano a ripartire gli ordini e con essi anche il prodotto interno lordo, seppur “drogato” dai bonus e dai primi stanziamenti del Pnrr.  Il periodo di difficoltà ha rimodellato le nostre aziende, che hanno imparato a fare le famose nozze con i fichi secchi, altrimenti dette “resilienza”. Ha anche insegnato a guardare con maggiore attenzione all’Europa e alle risposte che arrivano da Bruxelles e Francoforte. Ma intanto, come se la stanno cavando le aziende italiane, tra alti costi dell’energia e inflazione?

“Nel manifatturiero italiano c’è chi ha riorganizzato i turni di produzione valorizzando ore notturne o fine settimana, chi si è fatto carico dei maggiori costi energetici riversandoli sul cliente e quindi sul mercato, chi ha sospeso la produzione non potendo scaricare a valle sopraggiunti costi” racconta al Foglio Paolo Agnelli, imprenditore delle famose e omonime pentole, presidente di Confimi Industria, che conta oltre 45 mila piccole e medie imprese italiane, 600 mila dipendenti e un fatturato aggregato di quasi 85 miliardi di euro annui. Il prezzo del gas si è notevolmente ridotto, è sceso sotto 60 euro al megawattora e molto difficilmente tornera più sopra i 100 euro. In queste prime settimane i costi sono notevolmente scesi, ma le imprese guardano con timore alla data del 31 marzo, quando volgeranno a termine le misure stanziate: “Occorre lavorare all'indipendenza energetica del nostro Paese”, ripetono. 

Se il manifatturiero patisce ancora il costo dell’energia, non ride neppure l’agroalimentare, come ci racconta Luigi Scordamaglia di Filiera Italia, oltre 100 aziende grandi, medie e piccole e un fatturato aggregato di 60 miliardi annui. A preoccupare sono le misure messe in campo dalla Bce di contrasto all’inflazione. “La risposta dell’Europa alla drammatica situazione economica che stiamo vivendo è a dir poco incoerente, così come sono imprudenti le dichiarazioni di Lagarde arrivate da Davos, dove la presidente Bce ha continuato ad annunciare lacrime e sangue. È indubbio che l’epoca dei tassi sottozero sia terminata, ma dire che continueranno ad aumentare rapidamente finché l’inflazione non arriverà sotto il 2 per cento,  è estremamente grave.” La Bce non ha molta altra scelta, secondo la gran parte degli economisti, ma la comunicazione di Lagarde non lascia margini a sfumature e incupisce anche l’imprenditoria più coraggiosa. 

 

Passare dal whatever it takes al fratello ricordati che devi morire (di alti tassi), non fa bene al morale di questi tempi. Fuor d’ironia, la Bce auspica una crescita decisa per “contenere” gli effetti depressivi prodotti dalla sua stessa politica e fa sapere che ci vorranno enormi finanziamenti per la transizione verde. Viene da chiedersi, in questo frangente, dove la Ue possa raggranellare cifre consistenti per stimolare ancora l’economia, proprio mentre gli Stati Uniti mettono in campo l’Ira, un’operazione da 370 miliardi di dollari. “Una cifra enorme che gli Usa hanno destinato alle proprie aziende in maniera più o meno legittima, ma sicuramente distorsiva”, ricorda Scordamaglia. E qui si rischia un cortocircuito in effetti. “Da parte europea le aziende non possono infatti investire a causa dell’elevato costo del denaro che blocca l’iniziativa. La risposta, come qualcuno vorrebbe, non puo’ essere negli aiuti di stato, semplice riflesso egoistico di singoli paesi che penalizza chi ha meno spazio di bilancio”, sottolinea Filiera Italia. 

Non resta dunque che sperare in nuovi fondi europei, “un veicolo sovrano comunitario per gli investimenti a cui la presidente Von der Leyen ha fatto un timido accenno, che il Presidente del Consiglio Ue Charles Michel apertamente sostiene, ma a cui i soliti 'frugali' si oppongono”. Emerge chiaramente che Bce o meno, nazionalismo o non, le imprese hanno bisogno di una Europa coesa e capace di pensare a lungo termine, che si tratti di costo dell’energia, transizione green o investimenti per la nostra competitività. Il rischio di una deindustrializzazione in Europa è reale, specialmente guardando a quanto accade dall’altra parte dell’Atlantico. 

 

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