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l'analisi

L'accisa mobile: la finta soluzione di un problema che non c'è

Carlo Stagnaro

Pochi centesimi di taglio che scatterebbe solo con un aumento del petrolio sopra gli 89,9 dollari al barile. Ma la situazione oggi è del tutto eccezionale e il prezzo del gasolio potrebbe crescere a parità di costi petroliferi

Con l’accisa mobile il governo Meloni risolve un problema che non c’è. O, per essere più precisi, risolve un problema che esiste solo sui giornali. I rincari dei carburanti sono in linea col ritorno al livello ordinario delle accise (anzi, leggermente al di sotto). Anche nel confronto internazionale non sembrano esserci anomalie. Secondo l’ultimo monitoraggio settimanale della Commissione europea (basato sui prezzi rilevati il 9 gennaio), benzina e gasolio costano in Italia meno della media Ue (lo stacco è rispettivamente  3,8 e 8,6 centesimi al litro). Lo “sconto Italia” è addirittura cresciuto rispetto ai primi giorni dell’anno ed è in linea coi valori della fine del 2022. 

A fronte di dati complessivamente tranquillizzanti, sia per quanto riguarda il livello sia per le variazioni dei prezzi, il governo si è mosso e l’Antitrust ha aperto l’ennesimo fascicolo a carico delle principali compagnie (senza che si abbia notizia del precedente, risalente a marzo). L’esecutivo, in particolare, ha messo in campo due misure: ha risuscitato il meccanismo di accisa mobile introdotto nel 2008 da Pierluigi Bersani e ha previsto l’obbligo di esporre il prezzo medio regionale dei prodotti nelle stazioni di rifornimento. L’accisa mobile si basa sul presupposto che gli incrementi dei prezzi comportano un maggior gettito Iva. Pertanto, oltre una certa soglia, lo stato  rinuncia a compartecipare ai rincari e “restituire” la sua parte attraverso una corrispondente riduzione dell’accisa. In passato, tale misura era stata attivata solo due volte: da Bersani nel 2008 (per quaranta giorni a cavallo delle elezioni, con una riduzione di 2 centesimi) e da Mario Draghi nel 2022 (limitatamente al Gpl, visto che su benzina e gasolio si era intervenuti in modo più muscolare col maxi taglio prima di 8,5, poi di 25 centesimi). Il meccanismo scatta attraverso un decreto del ministro dell’Ambiente quando il prezzo del petrolio, espresso in euro, supera la soglia di riferimento individuata nel Def. La Nadef fissa l’asticella del Brent a 89,9 dollari (con un cambio, secondo la  Nadef, all’incirca in parità). 

Ora, mentre in tempi normali le quotazioni del greggio sono una buona proxy delle variazioni nei costi dei prodotti, la situazione oggi è del tutto eccezionale. Infatti, il vero collo di bottiglia non sta alla bocca del pozzo, ma in uscita dalla raffineria, e non riguarda indifferentemente i vari prodotti, ma soprattutto il diesel. Di conseguenza, è ben possibile che – a parità di costi petroliferi – i prezzi del gasolio crescano, riflettendo la maggiore scarsità di questo specifico prodotto. D’altronde, basta guardare l’andamento del costo industriale della benzina e del gasolio: se fino all’inizio del 2022 andavano di pari passo, da quel punto in poi si è aperta una voragine, con un differenziale oggi di oltre 15 centesimi al litro. Questo gap non dipende da un aumento dei costi di produzione né dal mercato del grezzo, ma dal crescente scollamento tra l’offerta e la domanda di diesel in Europa. Potrebbe quindi esacerbarsi ulteriormente dopo il 5 febbraio, quando arriverà l’embargo sui prodotti petroliferi russi (anche se il precedente dell’embargo sul petrolio lascia qualche margine di ottimismo). Alla luce di questi dati, sarebbe opportuno – se proprio si intende prevedere una sorta di tutela per l’automobilista – assumere come riferimento il prezzo dei prodotti, non del greggio, approfittando tra l’altro dei dati capillarmente raccolti dal ministero delle Imprese (e meritoriamente messi a disposizione della collettività). 

In tale contesto, l’accisa mobile rischia comunque di essere un pannicello caldo, visto che la sua incidenza deve collocarsi entro il presunto extragettito Iva: 2,2 centesimi per ogni 10 centesimi di rincaro. Né, d’altronde, sarebbe ragionevole predisporre misure più costose, per le motivazioni che sono state più volte correttamente richiamate dalla premier Giorgia Meloni. In sostanza si ha la sensazione che il decreto risponda più alle sollecitazioni mediatiche e alle schermaglie politiche che a un’esigenza reale del paese. E in questo senso va anche l’obbligo di esporre il prezzo medio regionale, che è un riferimento privo di senso, specie nelle regioni più grandi. Il prezzo dei carburanti alla pompa dipende, oltre che dalla componente fiscale, dai costi della materia prima, che risentono (tra l’altro) delle condizioni logistiche e dell’esigenza di coprire i costi fissi degli impianti. Quindi, è intuitivo che le zone più lontane dalle raffinerie, meno collegate o caratterizzate da un minore erogato medio avranno costi (e dunque prezzi) più elevati. Sarebbe più utile per l’automobilista conoscere quali distributori offrano le condizioni più convenienti: e per saperlo non serve imporre alcun cartello aggiuntivo ai benzinai. Basta promuovere l’utilizzo delle app e dei siti già esistenti (incluso quello del Mimit) e vigilare sul fatto che i benzinai comunichino correttamente e tempestivamente i prezzi praticati. A volte non serve inventarsi nulla di nuovo né rispolverare le grida manzoniane: basta far funzionare quello che c’è.
 

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