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Nella manovra il rischio di un vicolo cieco per le pensioni

Marco Leonardi

L’intenzione di favorire quota 103 e insieme penalizzare opzione donna non promette niente di buono per il futuro di una riforma strutturale

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In attesa della eterna promessa della riforma strutturale delle pensioni, il governo in legge di Bilancio ha fatto quattro interventi temporanei validi per un solo anno: la sostituzione di quota 102 (64 anni di età e 38 di contributi) con quota 103 (62 anni di età e 41 di contributi); una nuova versione di “opzione donna” con l’incremento dell’età pensionabile a 60 anni, che rimane a 58 anni solo per le donne con due figli; l’aumento delle pensioni minime da 574 euro mensili a 600 euro per i pensionati con più di 75 anni. Il tutto finanziato con il taglio della rivalutazione delle pensioni superiori a 2.100 euro mensili.


Probabilmente per insipienza queste quattro operazioni produrranno nel 2023 il minor numero di pensionamenti anticipati di tutti gli ultimi anni. Non credo che fosse questo il proposito del governo dopo gli innumerevoli anni trascorsi a parlare di quota 41 (41 anni di contributi per tutti, che è una proposta che piace anche ai sindacati) e a inventarsi modi per far andare in pensione più persone possibili. Ma a parte questa doverosa considerazione sul 2023 – che appartiene alla lista delle innumerevoli marce indietro rispetto alle promesse elettorali – il punto vero riguarda il futuro: il combinato disposto di questi interventi non fa presagire niente di buono riguardo alla riforma futura. Vediamo perché.

 
Quota 103 permette in teoria di andare in pensione con 62 anni di età e 41 di contributi, cioè poco prima del limite ordinario di contributi che è di 41 anni e 10 mesi per le donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini. Si tratta di un’anticipazione di pochi mesi per chi è già sulla via della maturazione della pensione ordinaria con il numero di anni di contribuzione sufficienti. Chi non ha raggiunto i 41 anni di contributi deve aspettare i 67 anni di età della Fornero. Siccome circa due terzi degli italiani vanno in pensione ogni anno con il requisito dei contributi, la platea potenzialmente interessata alla misura è ampia, circa 40 mila persone in grande maggioranza uomini. Ma i paletti posti all’utilizzo di quota 103 sono tali che in realtà la platea probabilmente sarà minore. Non solo c’è il divieto di lavorare dopo aver preso quota 103 e il rinvio del Tfr, ma c’è anche un tetto alla pensione a circa 2.800 euro lordi mensili. Visto che la pensione media di chi è uscito negli anni passati con quota 100 è di 2.500 euro mensili, non si vede perché molti dei candidati a quota 103 che si aspettano un assegno maggiore di 2.800 euro lordi al mese dovrebbero scegliere di andare in pensione prima per avere l’assegno decurtato. Per di più 2.800 euro di pensione vuol dire incorrere ampiamente nella rivalutazione limitata all’inflazione che per effetto di questa legge di Bilancio colpisce le pensioni sopra i 2.100 euro. Il governo ha inoltre introdotto un bonus del 9 per cento di contributi in busta paga per chi, pur avendo i requisiti per quota 103, rimane al lavoro. Con una mano ti dà la possibilità di anticipare la pensione e con l’altra mano te la toglie: il risultato sarà un numero minore di anticipi pensionistici. Con l’effetto collaterale che comunque entrambe le misure costano, sia l’introduzione di quota 103 sia il bonus del 9 per cento dei contributi per chi rimane a lavorare. E entrambe sono pagate con il limite alla rivalutazione delle pensioni sopra i 2.100 euro mensili. 

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C’è poi la riforma di “opzione donna” per il solo anno 2023 che ha attirato moltissime critiche. E’ stato alzato il limite per la pensione da 58 a 60 anni e sono stati introdotti molti paletti all’accesso. Il limite rimane a 58 anni solo per le donne con due figli. La platea si riduce di conseguenza da 20 mila donne all’anno a 2.900, con questi numeri minuscoli di anticipi pensionistici siamo vicini come non mai al ritorno integrale della Fornero. Anche in questo caso il governo sembra dare ma in realtà toglie. Il suggerimento di dare qualcosa in più alle donne con figli deve essere venuto da molto in alto ma non ha nessun senso. E’ vero che le donne con figli fanno più fatica degli uomini a raggiungere il numero di anni di contribuzione per andare in pensione e per questa ragione per anni si è discusso se concedere loro –solo alle donne con figli – uno sconto sugli anni di contributi necessari per la pensione. Ma la riflessione riguarda il numero di contributi del pensionamento ordinario, non l’età di pensionamento. Qui siamo al paradosso che possono far valere la loro maternità solo le pochissime donne (2.900!) che optano per il sistema contributivo e non tutte le altre che vanno in pensione con i canali ordinari. 

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Opzione donna è l’unico sistema di anticipo della pensione che si basa sul sistema contributivo per cui l’anticipo della pensione si paga con un assegno inferiore. E’ l’unico sistema che combina in modo corretto la necessità di un’assicurazione di un reddito per la vecchiaia e l’incentivo a rimanere più a lungo al lavoro per avere una pensione più alta. E’ il sistema che a regime varrà per tutti, non solo per le donne, tra una decina di anni o poco più. Se l’anticipo te lo paghi, non ha nessun senso penalizzare le persone senza figli. La motivazione che favorisce la maternità è del tutto risibile. La maternità è aiutata dall’introduzione di un generoso assegno per i figli e dalla costruzione degli asili nido del Pnrr, misure entrambe dovute ai due governi precedenti, Conte II e Draghi. Ma che aiuto alla maternità è anticipare l’età di pensionamento delle donne con figli se, figli o non figli, tutte le donne che useranno opzione donna si pagheranno l’anticipo con una pensione più bassa?


Per questo l’intenzione del governo di favorire quota 103 e contemporaneamente penalizzare opzione donna non promette niente di buono per il futuro di una riforma strutturale. Invece di essere basata sul sistema contributivo, la riforma vorrà essere basata su quota 41 anni di contributi per tutti senza i limiti di quota 103 (il limite di età a 62 anni, il limite al cumulo di un reddito, il limite di importo sotto i 2.600 euro/mese). Inoltre le pensioni minime dopo il 2023 dovranno essere per forza prorogate a 600 euro, o 1.000 euro se si dà retta a Berlusconi, per sempre. A quel punto bisogna sapere che l’unico modo per finanziare quota 41 per tutti è continuare a tagliare la rivalutazione delle pensioni al di sopra dei 2.100 euro. Ma siccome il solo taglio alla rivalutazione imposto nella legge di Bilancio di questo anno produrrà perdite individuali che oscillano tra i 13 mila e i 110 mila euro accumulate su 10 anni per circa 3,3 milioni di pensionati (stima Itinerari Previdenziali), dubito che ciò sia possibile.

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