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Le sfide

La recessione lunga si può evitare, ma a Meloni serve una svolta

Dario Di Vico

L'economia tiene e cresce: con il Black friday si è registrato un giro d'affari del 10 per cento in più rispetto al 2021 e si registra un riadattamento dei consumi degli italiani. Ma la Melonomics dà troppa attenzione al consenso e poca alla crescita

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Venerdì 2 dicembre arriverà il tradizionale rapporto annuale del Censis e con tutta probabilità ne sapremo di più sulla vitalità della società italiana, sulla sua straordinaria capacità di reazione ai cigni neri che ormai stanno costellando la storia di questi anni. Forse visto l’abuso del termine resilienza il Censis ci fornirà anche parole nuove per ricatalogare questo fenomeno, del resto l’innovazione lessicale è un classico della premiata ditta De Rita. Comunque già due settimane fa la nota congiunturale di Ref Ricerche ci aveva suggerito una pista: la recessione dipenderà dalle scelte delle famiglie. Continueranno come nella prima fase post Covid a sostenere i consumi, si muoveranno in lungo e largo, affolleranno eventi e festival, prenoteranno altre settimane di ferie oppure l’inflazione a due cifre porterà a una contrazione secca della spesa? 

 

Se dovesse essere così, se il braccino corto dovesse prevalere, a pagare in seconda battuta sarebbe l’industria che non potrebbe più sostenere i livelli di produzione di questi ultimi mesi e sarebbe costretta a ricorrere alla cassa integrazione e a provvedimenti anche più dolorosi. Dai riscontri che abbiamo ci sentiamo autorizzati a dire però che la battaglia è tutt’altro che persa. La sorpresa – l’ennesima a livello statistico – è di pochi giorni fa con una drastica risalita (da 90,1 a 98,1) dell’indice di fiducia di novembre delle famiglie che a ottobre era sceso di 4 punti abbondanti. Ma anche la fenomenologia minima sembra andare nella stessa direzione: Confcommercio Milano (e non Amazon!) sostiene che nello scorso week end il Black Friday ha generato un giro d’affari pari a +10 per cento sul 2021, le cronache locali di diverse regioni registrano già un pieno di prenotazioni per il periodo festivo di fine d’anno, l’occupazione sta tenendo e c’è anche una buona tendenza delle aziende a stabilizzare i precari.

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Quanto alla mobilità delle persone e delle merci il traffico autostradale e quello ferroviario rimangono più che sostenuti. Senza voler mettere le braghe alla società e sfornare analisi affrettate si può dire però che si sta assistendo a un riadattamento dei consumi e delle priorità di spesa degli italiani che li porta a privilegiare alcune scelte (il ristorante, ad esempio) rispetto ad altre, che li porta a mixare il punto di vendita discount con altri consumi più personalizzati e considerati “non negoziabili”. Persino le immatricolazioni delle nuove auto hanno ripreso il segno più. Direte che non è una novità quella di una società sempre più individualizzata e di un consumatore in perenne transumanza ma naturalmente quello che ci interessa è la somma che deriva da questa varietà di comportamenti.

 

E sicuramente quello che si respira non è un clima da depressione. Le famiglie stanno facendo una sorta di arbitraggio tra perdita del potere d’acquisto, sobrietà e utilizzo del risparmio accumulato. C’è sicuramente un sovrappiù di ansia sociale e basta scorrere la pagine dei quotidiani locali – più vicini per dna alla cronaca spicciola – per capire come si scarichi non tanto sulla fuga dai consumi ma sulla frequenza degli incidenti stradali, sulla mancanza di medici negli ospedali, sulla diffusione delle baby gang e persino sull’incidenza della tradizionale influenza invernale. È chiaro che oltre alla vitalità sociale di cui sopra l’allontanarsi di scenari apocalittici è dovuto alle generose politiche governative di sostegno della domanda: nei giorni scorsi abbiamo appreso che il governo del tecnocrate per eccellenza, al secolo Mario Draghi, ha fatto scendere l’indice della disuguaglianza e ridotto la povertà. E sicuramente la scelta del governo Meloni di concentrare due terzi della manovra sul contenimento del caro-bollette è in continuità con quegli sforzi. E infatti Intesa Sanpaolo giudica solo “possibile” quella che chiama “una breve recessione tecnica tra fine 2022 e inizio 2023”.

 

Ma il quadro delle tendenze dell’economia reale non sarebbe completo se si dimenticassero due altri fattori. Il primo riguarda l’inflazione il cui andamento, secondo tutte le istituzioni economiche e le agenzie indipendenti di ricerca, dovrebbe nel 2023 scendere di diversi punti. Ma si tratterebbe comunque di entrare in un regime macro-economico assai diverso da quello con il quale siamo stati abituati a convivere negli ultimi anni. Gli scenari di un’economia reale con l’inflazione al 5 per cento – se non sopra – non sono stati ancora sufficientemente messi a fuoco, eppure per dirla con un linguaggio da bar si tratta di imparare a “giocare con un altro mazzo di carte”. Si pensi alla dinamica salariale e alla tutela del potere d’acquisto, alle scelte dei risparmiatori che ormai si erano abituati a parcheggiare la liquidità nei conti correnti, si pensi infine alle tantissime variabili che un’inflazione di quel tipo si introducono nelle scelte delle aziende sia esse B2B o B2C. Nella migliore delle ipotesi si prospetta per tutti gli attori dell’economia uno stress test dai contorni ancora indefiniti.

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La seconda considerazione riguarda la Melonomics, gli orientamenti di fondo della politica economica della nuova destra di governo. Come è stato messo in luce dalla Confindustria e da altri commentatori indipendenti, l’impressione è quella di una scissione tra crescita e consenso. In passato siamo stati abituati a pensare che la prima fosse il presupposto del secondo, che creando maggiori occasioni di investimento e di occupazione si generassero anche le condizioni di una maggiore adesione sociale agli indirizzi di politica economica. E in fondo, pur tra varie contraddizione, la filosofia del governo Draghi obbediva ancora a quel principio. Con Meloni si cambia, è il consenso che diviene il driver: si presenti sotto forma del maggior ricorso al contante, della pace fiscale, della detassazione delle mance dei camerieri o della riproposizione del Ponte sullo Stretto.

 

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E non vale l’obiezione della premier utilizzata nell’intervista al direttore del Corriere della Sera (“attacco il Reddito di cittadinanza e quindi non ho paura di misure impopolari”) perché basta ripassare al volo la geografia del voto per Fratelli d’Italia del 25 settembre per constatare come gli elettori Nord – che non amano certo il Reddito – siano stati molto più generosi con il partito di Giorgia Meloni di quelli del Sud. Ora è chiaro che l’orientamento al consenso-cash deriva anche da una differente professionalità dei politici del centro-destra che sanno dedicare grande attenzione alla vita minima degli italiani, al piccolo e al quotidiano, laddove invece il centro-sinistra abusa di maiuscole e ossimori. Ma un grande paese industrializzato non può fare a meno di programmare la crescita, non può permettersi amnesie sul 4.0 o sul finanziamento dei progetti di ricerca europei. Non è sufficiente promettere di “non disturbare chi produce” come la premier ha scandito ieri all’assemblea degli industriali di Veneto Est, ci vuole decisamente di più. 

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