Per Meloni la raffineria di Priolo è una crisi a orologeria lasciata da Draghi

Luciano Capone

L'Isab, controllata da Lukoil, con l'embargo sul greggio russo da dicembre non potrà più operare: 3 mila posti di lavoro e il 20 per cento della raffinazione nazionale. Palazzo Chigi e Giorgetti in 7 mesi non hanno fatto nulla. Meloni ha pochissimo tempo, ma una strada c'è: il modello tedesco usato con Rosneft

È  probabilmente il dossier gestito peggio da Mario Draghi. Più che un cerino, a Giorgia Meloni viene lasciato un candelotto di dinamite acceso. E la prossima premier non potrà neppure prendersela più di tanto con il governo precedente perché, nonostante l’inazione di Palazzo Chigi su una questione così delicata, il dossier era nelle mani del ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, che viene addirittura indicato come ministro dell’Economia in pectore del nuovo esecutivo. Il caso è quello di Priolo, in Sicilia, e di come si rischia di far schiantare la più grande raffineria del paese a causa di una gestione approssimativa e per certi versi irresponsabile di una questione che riguarda la sicurezza energetica.

 

A Priolo Gargallo, nel polo petrolchimico di Siracusa, c’è una società di raffinazione, gassificazione e cogenerazione di energia elettrica di nome Isab, di proprietà della società svizzera Litasco, a sua volta controllata dalla russa Lukoil. L’Isab ha sempre lavorato un mix di greggi importato da varie parti del mondo di cui quello russo rappresenta il 30-40%, almeno fino a febbraio. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina tutto è cambiato. Sebbene all’inizio i pacchetti di sanzioni dell’Unione europea escludessero il settore energetico e Lukoil non risulti tra i soggetti sanzionati, le banche hanno tagliato le linee di credito all’Isab per “overcompliance”. Cioè per evitare, forse per eccesso di cautela, qualsiasi potenziale problema giuridico o sanzionatorio per la collaborazione con una società controllata dai russi. Di conseguenza la raffineria si è trovata costretta a dover fare affidamento esclusivamente sulle forniture della società madre. E quindi Isab è immediatamente passata al 100% di dipendenza dal greggio russo.

 

Trattandosi della principale raffineria del paese, questa situazione ha avuto un impatto nazionale facendo esplodere l’import dalla Russia. Secondo i dati dell’Unem – l’ex Unione petrolifera – nel primo semestre 2022 l’import di greggio Urals è aumentato del 143% rispetto al 2021, facendo balzare la Russia al primo posto tra i fornitori (al netto del caso in cui si è trovata l'Isab, il greggio russo arrivato in Italia è in forte calo rispetto al 2021). L’inerzia del governo Draghi rispetto a questa situazione ha fatto dell’Italia l’unico grande paese occidentale in controtendenza rispetto alla riduzione della dipendenza dalla Russia. Mentre l’Europa e i paesi del G7 hanno ridotto notevolmente, quando non azzerato, le importazioni di petrolio russo per evitare di finanziare la guerra di Putin, l’Italia le ha più che raddoppiate comportandosi come il blocco di paesi più amichevole con Putin. E ora l’Italia è il quarto importatore mondiale di greggio russo dopo India, Cina e Turchia.

 

Ma se questa è di per sé una conseguenza grave, se ne aggiunge un’altra altrettanto grave e di segno opposto. Perché mentre si determinava questa situazione, l’Italia ha giustamente appoggiato in Europa l’embargo sul petrolio russo via nave che scatterà il prossimo 5 dicembre. Ciò vuol dire che per effetto del combinato disposto di azione e inazione del governo, l’Isab prima è stata costretta a passare da 30 a 100 nella dipendenza dal greggio russo e tra poco più di un mese sarà costretta a passare repentinamente da 100 a zero, schiantandosi contro il muro dell’embargo. Si tratta di un’enorme crisi industriale e occupazionale: la raffineria dà lavoro a circa 3 mila dipendenti (1.050 diretti più 1.930 dell’indotto), ma le possibili ricadute sono molto più estese. Perché l’Isab è inserita in un polo industriale integrato insieme ad altre grandi aziende (Sonatrach, Sasol, Versalis, Air Liquide, Erg Power) che vivono in una relazione simbiotica. Se si ferma una ne risente tutto il polo, che vale l’8% del pil della Sicilia.

 

Ma l’impatto non è solo occupazionale e regionale: è energetico e nazionale. Perché Isab è la principale raffineria italiana, da sola garantisce il 20% della raffinazione nazionale (distillati, benzina, gasolio, jet fuel, etc.) e il 18% del fabbisogno elettrico della Sicilia. Se si fermasse sparirebbe dal mercato il 40% dei carburanti in Sicilia e una quota elevata nelle altre regioni. La riorganizzazione della logistica produrrebbe un effetto domino su tutta la filiera nazionale con una scarsità di carburanti e un aumento dei prezzi, soprattutto del gasolio.

 

Di fronte a questo scenario da incubo cosa ha fatto il governo? In pratica, nulla. Ci sono stati in primavera alcuni incontri interlocutori di cui si era occupata la sottosegretaria al Mise del M5s, Alessandra Todde. Ma poi il dossier è stato avocato dal ministro Giorgetti. Il governo ha istituito un “tavolo di coordinamento interministeriale” per trovare una via d’uscita. Si è riunito una sola volta, il 2 agosto, e nell’incontro i rappresentanti dell’Isab hanno manifestato “preoccupazione” per l’imminenza dell’embargo e chiesto un intervento per poter lavorare come prima. Isab ha chiesto al governo una “comfort letter” per rassicurare le banche che non è soggetta a sanzioni e quindi non c’è ragione per restringerne l’operatività (un precedente riguarda una lettera analoga usata per il caso Tamoil nel 2011, dopo le sanzioni alla Libia di Gheddafi). Niente. L’altra ipotesi è una garanzia da parte di Sace (società controllata dal Mef) attraverso il meccanismo degli aiuti Covid. In questo caso ciò che Sace offrirebbe non è tanto una garanzia finanziaria – dato che Isab non è in crisi, anzi – ma una copertura istituzionale all’operatività. Niente.

 

L’altra soluzione più radicale è un cambiamento dell’assetto proprietario. Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani un mese fa ha detto che “si stanno valutando acquisizioni private internazionali”. Il Financial Times e Bloomberg hanno parlato dell’interessamento di due potenziali compratori: Onex Holding, società di Dubai che investe in infrastrutture energetiche, e il fondo americano Crossbridge, affiliato a Postlane Partners, che ha acquistato una raffineria in Danimarca nel 2021. Ma le trattative sono a uno stadio iniziale ed è impensabile concludere l’acquisto di una società da 5 miliardi di euro di fatturato come Isab in un mesetto, prima del 5 dicembre. Serve, quindi, una soluzione ponte.

 

La Germania si è trovata in una situazione analoga, ma si è mossa per tempo. A maggio 2022 il Bundestag, con il voto della maggioranza Spd-Verdi-Fdp e l’astensione della Cdu/Csu, ha modificato la Legge sulla sicurezza energetica del 1975 per introdurre nuove misure per affrontare la crisi dopo l’invasione russa dell’Ucraina. L’innovazione più importante è stata l’introduzione dell’amministrazione fiduciaria, una specie di amministrazione straordinaria del nostro ordinamento, su società e infrastrutture critiche per l’approvvigionamento energetico per massimo un anno, con facoltà di esproprio come extrema ratio. Questa norma ha consentito a settembre di porre sotto l’amministrazione fiduciaria dell’Agenzia federale delle Reti le raffinerie della società statale russa Rosneft. La motivazione adottata dal ministero dell’Economia tedesco è stata che la continuità delle attività era in pericolo a causa della proprietà delle società, visto che i fornitori di servizi essenziali – come assicurazioni, società It e banche – non erano disposti a lavorare con Rosneft. La stessa situazione dell'Isab di Priolo.

 

C’è poco tempo. Meloni non può presentarsi in Europa e chiedere, come primo atto, una deroga all’embargo russo (soprattutto dopo le recenti dichiarazioni filorusse di Silvio Berlusconi). Né probabilmente è sufficiente una semplice “comfort letter”. Senza pensare a soluzioni inutilmente estreme come la nazionalizzazione, anche visto lo spirito collaborativo di Lukoil, che esporrebbe le imprese italiane a ritorsioni in Russia, mutuare con un decreto legge la normativa tedesca già applicata con Rosneft può essere una soluzione ponte per dare continuità alla raffineria, in vista della conclusione delle trattative per il passaggio di proprietà. Di sicuro c’è che il tempo è sempre meno. E non fare nulla, come fatto finora, non è una soluzione.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali