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un bilancio

Pregi e difetti della tassa europea sugli extraprofitti

Dario Stevanato

Rispetto a quello italiano, il modello europeo sembra a prima vista costruito su basi più solide, tuttavia permangono delle criticità: dal meccanismo di individuazione della quota al rischio di colpire redditi che sarebbe incoerente sovratassare

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L’Unione europea sembra intenzionata ad armonizzare i prelievi sugli extraprofitti, dato che fino a questo momento gli stati membri sono andati in ordine sparso, un po’ come era accaduto con le imposte sui servizi digitali. L’armonizzazione riguarderebbe il calcolo della base imponibile nonché l’aliquota del prelievo, che gli stati dovrebbero fissare in misura almeno pari al 33 per cento. Nella proposta della Commissione europea circolata in questi giorni si parla di un “contributo di solidarietà” temporaneo, espressione eufemistica per designare una vera e propria imposta straordinaria, applicabile per il solo 2022.

 

Rispetto alla controversa imposta sugli extraprofitti voluta dal governo italiano, quella di matrice europea appare a prima vista costruita su basi più solide e coerenti con il fine perseguito, se non altro perché ha a oggetto non già il differenziale nel saldo delle operazioni Iva tra due diversi periodi, quanto una quota del reddito imponibile, e precisamente l’eccedenza rispetto alla media del triennio precedente a quello di applicabilità del prelievo. Anche la misura europea presenta tuttavia rilevanti criticità. 
La stessa prevede che le imprese operanti nei settori del petrolio, gas, carbone e in quello della raffinazione, vengano assoggettate al prelievo straordinario sui redditi che eccedono, per almeno il 20 per cento, la media di quelli conseguiti nel triennio 2019-2021, con la precisazione che se l’impresa ha conseguito in media una perdita nel triennio trascorso, la stessa si considera pari a zero ai fini del calcolo, il che significa che in tal caso l’intero profitto dell’anno 2022 sarà considerato “extra”.

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Si noti che il contributo straordinario di matrice europea è “addizionale” rispetto alla vigente tassazione dei profitti di impresa (come si desume dalla previsione secondo cui il contributo si applicherà in aggiunta all’imposta sui redditi applicata da ciascuno stato membro), ma non è un’addizionale in senso tecnico. L’addizionale, infatti, ha la stessa base imponibile del tributo-base cui accede: aveva ad esempio natura di “addizionale” all’Ires la “Robin Hood Tax” del 2008, che venne dichiarata incostituzionale anche per tale ragione, cioè per il fatto che, nonostante il suo obiettivo dichiarato fosse quello di tassare in modo differenziale gli extraprofitti delle imprese energetiche, finiva invece per tassare con un’aliquota più elevata l’intero profitto conseguito, dunque anche la sua parte “ordinaria”.

 

Sotto questo aspetto la misura europea appare in astratto più centrata, giacché vi è almeno il tentativo di sceverare, nell’ambito del reddito tassabile prodotto nel 2022, la parte “ordinaria” da quella “straordinaria” del profitto, e di applicare la maggiorazione di aliquota soltanto a quest’ultima.
Purtroppo, però, l’individuazione della quota di extraprofitto è affidata a un meccanismo approssimativo e discutibile, suscettibile di produrre distorsioni e ingiustificati aggravi di imposizione. Un primo aspetto criticabile riguarda la scelta dell’arco temporale assunto come benchmark per il calcolo dell’extra-profitto, giacché gli anni 2019-2021 sono stati in gran parte influenzati dal rallentamento delle attività economiche causato dalla pandemia e da prezzi delle materie prime piuttosto depressi. 

 

In secondo luogo, nel considerare quale base imponibile un “differenziale” rapportato all’intero reddito d’impresa, si corre il rischio di tassare un’illusione ottica e fenomeni totalmente avulsi rispetto all’obiettivo preso di mira. Gli extraprofitti relativi al settore energetico, oggi come in passato, dovrebbero essere individuati in relazione a un repentino incremento dei prezzi di vendita di gas, petrolio ed elettricità, tale da riflettersi in una abnorme crescita dei margini unitari, per singolo prodotto, rispetto a quella mediamente riscontrabile nel settore. Ma ciò richiederebbe appunto una misurazione analitica dei conti delle aziende, che, a partire dai costi di acquisto o di produzione del gas, del petrolio o dell’elettricità, individui di quanto è aumentato il “ricarico” per effetto dell’aumento dei prezzi di vendita e di un’alterazione degli ordinari meccanismi di mercato dovuti a fattori esogeni come la guerra, una restrizione dei canali di approvigionamento, fenomeni inflattivi e via dicendo. 

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Se invece si prende a riferimento l’intero utile d’impresa conseguito in un certo anno, per quanto considerando la sola parte del suo incremento rispetto a un arco temporale precedente, si includono nella base imponibile dell’extra-prelievo anche quei maggiori redditi che non dipendono da una più elevata marginalità unitaria, per prodotto, bensì da un effetto-quantità. Si pensi al caso di imprese di recente costituzione, che hanno espanso la propria attività nel 2022, oppure all’acquisizione di nuove quote di mercato, imprese concorrenti, rami di azienda e così via. In tutti questi casi l’incremento del reddito registrato riflette in tutto o in parte le maggiori quantità commercializzate e non può essere univocamente ricondotto a una lievitazione dei prezzi e dei margini unitari, dunque appare incoerente sovratassarlo. 

 

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Si pensi poi alle imprese che hanno registrato in media delle perdite nel periodo 2019-2021, per le quali l’intero profitto realizzato nel 2022 sarebbe configurato, contro ogni logica, come “extra”.
L’imposta caldeggiata dalla Commissione europea, se sarà introdotta dagli stati membri che, come l’Italia, hanno già provveduto in autonomia a tassare gli “extraprofitti”, porrà inoltre un problema di sovrapposizione dei prelievi, aggravato dalla sua quasi-confiscatorietà: anche se con basi imponibili calcolate secondo regole differenti, sia il prelievo italiano che quello di matrice europea insistono sul medesimo presupposto economico, trattandosi di imposte che intendono avocare all’erario una parte dei profitti delle imprese energetiche. Nel nostro ordinamento vige però il divieto di doppia imposizione dello stesso reddito, che il governo, se intenderà procedere sulla strada tracciata dall’Unione europea, difficilmente potrà eludere.

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