(foto Ansa)

Il super ministro Daniele Franco. Indagine sul metodo

Stefano Cingolani

Ha stanziato miliardi senza scassare i conti pubblici. Ecco perché il governo che verrà dopo le elezioni potrebbe confermarlo

L’ultimo decreto, detto Aiuti ter approvato venerdì, un po’ come l’ultimo metrò nel capolavoro di François Truffaut, dovrebbe metterci al riparo dalle rappresaglie della storia. Nel film bisognava sfuggire alla Gestapo che occupava Parigi, nella realtà di oggi dobbiamo uscire dalle grinfie di Gazprom. Al pari del penultimo decreto, aiuti bis, tornato dalla Camera al Senato, si offrono rifugi, non soluzioni. Poi toccherà a qualcun altro, forse a Giorgia Meloni. Dal 13 febbraio 2021 a oggi sono stati varati provvedimenti a raffica prima per tamponare la pandemia, poi per reagire all’inflazione e al caro bollette. Un calcolo approssimativo arriva a 160 miliardi di euro, compresa la manovra economica di 32 miliardi varata con la legge di bilancio dello scorso anno e le indicazioni che vengono dal Def (Documento di economia e finanza). Si tratta di quasi dieci punti di prodotto interno lordo spesi pur contenendo il deficit, aumentando la crescita e riducendo il debito sul pil. Un miracolo? Può darsi, ma prima di ricorrere alle forze sovrannaturali, meglio guardare alle forze del tutto naturali di un civil servant appartato, severo e silenzioso come le sue montagne, grande conoscitore della finanza pubblica.

E’ stato lui, Daniele Franco, a mettere la firma, non solo la faccia, su tutti questi decreti. Quando Giorgia Meloni si è rivolta a Mario Draghi per avere lumi, ha sentito un vero peana a favore del ministro dell’economia. E’ l’uomo giusto per tenere le redini, e lo ha dimostrato. Draghi lo ha ribadito ieri in conferenza stampa confermando che lo vedrebbe bene “in qualunque altro governo perché lavora bene”, lui come pure Roberto Cingolani. Mentre per offrire garanzie alla Ue e alla Bce c’è Fabio Panetta. Se vogliono “rovesciare il paese come un calzino”, i Fratelli d’Italia (“The Brothers” come già li chiamano negli States) finiranno per gettare tutti nella lavatrice. Ma se vogliono afferrare il potere con guanti di velluto dovranno ascoltare i consigli di Super Mario. Dunque, Franco al Tesoro e Panetta alla Banca centrale, perché tra un anno scade anche Ignazio Visco?


Quasi dieci punti di prodotto interno lordo spesi contenendo il deficit, aumentando la crescita e riducendo il debito sul pil. Un miracolo? Forse


Camminatore solitario, in equilibrio sui sentieri incrociati del bilancio pubblico, Franco s’è inoltrato nella caligine della spesa e nei vapori del debito senza esserne intossicato. Lo scontro sugli aiuti è stato durissimo, talvolta feroce. Bisognava fare debito buono e non cattivo, ma le parole non corrispondono alle cose. Appena nominato deve occuparsi della pandemia. Tra marzo e maggio dello scorso anno vengono presi provvedimenti che costano 72 miliardi di euro. Mentre si allenta la pressione del Covid-19 e si discute di ridurre le restrizioni, ecco le prime tensioni sulle materie prime e sull’energia. A giugno il decreto lavoro stanzia 3 miliardi per la cassa integrazione e per tamponare le tariffe elettriche. Non basta. A settembre comincia la serie di decreti bollette: 3,5 miliardi per affrontare l’ultimo trimestre. A gennaio c’è il decreto sostegni (altri 3,3 miliardi). Poi la Russia invade l’Ucraina e scatta la girandola di erogazioni: decreto energia a marzo seguito dal decreto carburanti, in tutto 13,9 miliardi di euro. E ancora: il primo decreto aiuti arriva a 15,2 miliardi, il secondo pacchetto a 17 miliardi, il terzo s’aggira sui venti miliardi. Solo per far fronte all’emergenza bollette, dalle casse del Tesoro sono usciti finora 50 miliardi di euro, 30 dei quali quest’anno. Non ci sono stati aumenti di imposte e non c’è stato nemmeno altro debito in rapporto al pil; anzi, è sceso di 4,5 punti nel 2021 e dovrebbe calare di un altro 3,8 per cento quest’anno, attestandosi al 147 per cento. Si tratta pur sempre di 2.700 miliardi di euro da finanziare, sia chiaro. Il disavanzo pubblico ha fatto un balzo nel 2020 passando da 28 a 178 miliardi, poi è diminuito un po’ nel 2021 (155 miliardi) pari al 7,2 per cento del prodotto lordo. Ma il forte rimbalzo dell’economia ha portato più entrate nelle casse dello stato. Franco mette in preventivo una ulteriore discesa al 5,6 per cento e fa orecchie da mercante di fronte alla propaganda politica, ai lamenti delle categorie, alla manifestazioni di piazza. Come c’è riuscito? Con abilità e determinazione, utilizzando al meglio le occasioni e scavando come una talpa nei meandri della spesa. 


E’ stato lui a redigere la reprimenda della Bce inviata nel 2011 dalla quale cominciarono i guai di Berlusconi capo del governo


Per capire il metodo Franco, gettiamo uno sguardo alla sua biografia, scarna quella ufficiale per scelta non per mancanza di pensieri e opere. Il 7 giugno 1953 sotto il segno dei gemelli, Daniele nasce a Trichiana, un paese con meno di cinquemila abitanti in provincia di Belluno al centro di un pianoro tra il Piave e le Prealpi. Il padre era un impiegato del catasto. Liceo a Belluno, lo scientifico Galileo Galilei, Scienze politiche all’università di Padova allora terreno di pascolo intellettuale per Toni Negri e Potere Operaio. Poi la laurea con Mario Arcelli, i panni lavati a York, in Inghilterra, per il master in Economia, il concorso alla Banca d’Italia dove entra nel 1979. Resta al servizio studi fino al 1994, per tre anni fa il consigliere economico presso la Direzione generale degli Affari economici e finanziari della Commissione europea, torna a Palazzo Koch, dove diventa direttore della sezione Finanza pubblica al servizio studi fino al 2007. E’ stato Daniele Franco a redigere materialmente la reprimenda della Bce inviata il 5 agosto 2011 dalla quale cominciarono i guai di Silvio Berlusconi allora capo del governo. E si può dire che gli abbia portato più oneri che onori. Il 17 maggio del 2013 viene nominato ragioniere generale dello Stato. Il 20 maggio 2019 spossato dalla guerriglia populista, torna in Banca d’Italia, come vicedirettore e poi direttore generale. Il 12 febbraio 2021 Draghi lo chiama e Franco risponde. Da studente frequentava gli Universitari costruttori, organizzazione di volontari fondata da padre Mario Ciman, un gesuita (anche lui come Draghi ha toccato con mano il carisma dei soldati di Gesù). Con loro ha partecipato alla rinascita del Friuli dopo il terremoto del 1976. Durante le vacanze faceva volontariato, costruiva case per anziani ai piedi delle montagne, dicono che non avesse mai freddo. A Trichiana torna appena possibile per un caffè in piazza del Martiri. “Parla dialetto e inglese in modo fluente”, dice Maurizio Busatta, ex assessore per il centrosinistra, giornalista, amico fin dai tempi dell’università. Tra le note ufficiali ci sono la dichiarazione dei redditi e lo stato patrimoniale. Il ministro dell’Economia possiede un appartamento con garage a Roma, una comproprietà a Belluno e a Borgo Valbellona, una Volkswagen Tiguan del 2020, pacchettini di azioni qua e là (niente Montepaschi né aziende a partecipazione statale). Riceve una pensione di vecchiaia Inps di 151 mila euro l’anno. Trasparenza, ma anche privacy. La moglie si chiama Laura, i due figli, un maschio e una femmina, vivono la loro vita e il padre non vuole che nessun pettegolo ci metta becco. Niente salotti, scarse uscite mondane. “Non l’ho mai visto presenziare a nessuna cena alla romana”, dice chi lo conosce, tranne la partecipazione, con la consorte, alla celebrazione dei veneti a Roma nell’ormai lontano 2013 con tanto di benedizione del cardinal Silvestrini da Treviso. In questo anno si è lasciato andare, ma solo per occasioni ufficiali.


Di fascicoli spinosi ne ha avuti molti: la trattativa con Unicredit per privatizzare il Monte dei Paschi di Siena, la cessione di Ita Airways


Pragmatico, come economista segue il mainstream post-keynesiano. A differenza da Mario Draghi, allievo di Federico Caffè, nella scienza delle finanze Franco si riconosce in Sergio Steve, che guidò la commissione dell’assemblea costituente. La sua forza non sta tanto nella teoria, bensì nella conoscenza dei fatti arricchita dagli anni trascorsi alla ragioneria. In un incontro quando era il guardiano della spesa, mi disse che in realtà allo stato non può sfuggire nemmeno l’acquisto di uno spillo, con nove ispettorati più un sevizio studi, 14 uffici nei ministeri con portafoglio, 103 ragionerie territoriali e circa la metà dei 13 mila dipendenti del ministero. A quel tempo è stato protagonista di alcune schermaglie indicative. Messo nel mirino dai grillini (compreso Luigi Di Maio) è stato attaccato frontalmente da Rocco Casalino con un messaggio audio su WhatsApp che non consentiva equivoci: “Se all’ultimo ci dicono che i soldi per il reddito non li hanno trovati, nel Movimento 5 stelle è pronta una mega vendetta. Nel 2019 ci concentreremo soltanto a far fuori quei pezzi di merda del Mef!”. Daniele Franco era in cima all’elenco. Giovanni Tria, ministro dell’Economia, intervenne in sua difesa, definendo “intollerabile” la sortita di Casalino, sostenuto invece da Giuseppe Conte, da poco scelto come presidente del Consiglio, secondo il quale era stata violata la privacy del suo fidato braccio destro. Franco ha ingoiato amaro, ma non si è spostato di un centimetro. Non si muove foglia che il Ragioniere non voglia, lui deve mettere il bollino su ogni legge è questo il suo potere. Si racconta inoltre un episodio che getta altra luce sul suo carattere. Enrico Letta era capo del governo, ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni che aveva voluto Franco accanto a sé come uomo dei conti pubblici. Fabrizio Pagani, consigliere di Letta, convoca il neo-ragioniere per una riunione di governo e lo fa chiamare a rapporto da una segretaria. Nel fortilizio di Palazzo Sella, il quartier generale dove si governa la finanza pubbica, tremarono anche le vetrate. Una sfuriata del genere non se l’aspettava nessuno da quell’uomo tanto riservato, cortese, aduso a parlar sottovoce, che addolcisce i suoi numerosi no con un “preferisco”, lavoratore instancabile, gran macinatore di numeri, equilibrato in tutto e per tutto, anche in politica, tanto che si scherzava dicendo che non era né di destra né di sinistra, ma nemmeno di centro. Quella volta però non aveva potuto resistere a un’offesa rivolta non solo a lui, ma alla sua funzione. Ci volle tutta l’abilità dell’allora viceministro Antonio Catricalà per sanare la ferita.

Il Foglio dello scorso 15 novembre ha scritto che Franco ha “il potere del silenzio”. Da allora ha parlato molto di più, anche se sempre in sedi appropriate e a modo suo, tutto cose niente metafore né le frasi a effetto che riescono così bene a Draghi. Con Guido Carli e Carlo Azeglio Ciampi i dossier passavano per le mani di un direttore generale come Mario Draghi; in più c’era il filtro dell’Iri e delle partecipazioni statali. Oggi sono tutti sulla scrivania del ministro, mentre al capo del governo spetta l’ultima parola. Di fascicoli spinosi ne ha avuti molti, affidati per lo più ad Alessandro Rivera che ha svolto un ruolo importante sia nella trattativa con la Unicredit per privatizzare il Monte dei Paschi di Siena, sia nella cessione di Ita Airways. La vendita di Mps è saltata, Andrea Orcel l’ad della Unicredit voleva un aumento di capitale da sei miliardi di euro e il via libera a settemila esuberi. Il Tesoro ha detto no. Adesso il nuovo governo dovrà trovare i sei miliardi per rimpolpare la banca senese e affrontare l’inevitabile conflitto sindacale sulla ristrutturazione. Lo stesso può accadere alla compagnia aerea. Sembrava fatta per Msc e Lufthansa, all’ultimo momento il Tesoro ha cambiato idea. Per Rivera era meglio attendere i prossimi inquilini del Palazzo; una considerazione che avrebbe pesato nel ribaltone a favore del fondo americano Certares con Air France e Delta partner solo operativi. La partita non è chiusa, ma il fatto che nella soluzione scelta il governo manterrebbe il 40 per cento della nuova Ita, non dispiace certo alla destra nazionalizzatrice. E si sentono già nell’aria i fumi dell’acciaieria di Taranto dove lo stato deve passare dal 40 al 60 per cento l’anno prossimo. Mago dei conti, il ministro si trova meno a suo agio nelle operazioni finanziarie e nei giochi di potere, ma soprattutto ha incontrato un invalicabile muro politico alla vigilia delle elezioni. 


“Dateci i soldi”, dicono i partiti. I loro propositi sulla carta sono diversi, in pratica chiedono di spendere senza indicare come ottenere le risorse


 

Si gonfiano giorno dopo giorno i dossier che lascia al suo successore, ma anche se ci fosse un Franco bis gli ostacoli da superare non sarebbero pochi. Il 4 settembre intervenendo al Forum Ambrosetti a Cernobbio, il ministro ha ricordato che “stiamo trasferendo all’estero una parte del nostro potere di acquisto. Se si guarda alla bolletta energetica del paese, cioè quanto costano le importazioni nette di energia, vediamo che nel 2021 era di 43 miliardi e quest’anno potrebbe salire a 100 miliardi. Un aumento di 60 miliardi significa circa 3 punti di pil e vuol dire un deflusso di risorse dall’Italia verso l’estero”. La conclusione di questa analisi è che non ci sono molti spazi per allargare i cordoni della borsa. Non solo i banchieri, anche ministri del Tesoro possono essere senza cuore, ma con tanta testa. Matteo Salvini chiede uno scostamento dal bilancio approvato, pari a 30 miliardi di euro. Non è una scelta tecnica, ma politica, occorre un voto del parlamento che autorizzi a fare nuovo debito visto che nessuno vuole aumentare le imposte. “Dateci i soldi”, dicono i partiti. I loro propositi sulla carta sono diversi, in pratica chiedono di spendere senza indicare come ottenere le risorse. Sky Tg24 ha costruito una tabella con uscite ed entrate, il centro destra ha 40 promesse di spesa e 3 impegni di entrate, il Pd 66 e 4, il M5S 32 e 2 e Azione 73 contro 7. La cautela di Giorgia Meloni sullo “scostamento” è un segno di realismo, però il programma di Fratelli d’Italia non è più a buon mercato di quelli della Lega e del Pd. I calcoli sono approssimativi, anche perché è difficile stimare l’impatto di provvedimenti spesso generici, ma molti ci stanno provando. Volendo azzardare una stima delle stime, per tenere fede alle proprie promesse ciascun partito chiede di stampare ancora un centinaio di miliardi, euro più euro meno. Vuol dire raddoppiare il disavanzo previsto, portandolo ben oltre i dieci punti di pil raggiunti nel primo anno di pandemia. C’è un ministro del Tesoro tanto avventato da proporlo? Non è questione di Bruxelles o Francoforte, non si tratta di alzare la bandiera della nazione sovrana contro il super stato europeo e la troppo autonoma banca centrale. Perché il responso verrà da chi tiene in portafoglio i buoni del tesoro mentre finisce la bonanza monetaria; e non parliamo della perfida plutocrazia globale; no, bisognerà convincere la platea dei risparmiatori italiani.

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