Le sanzioni spiegate a Salvini
Dopo aver fatto il pieno di rubli nel primo semestre, ad agosto le entrate fiscali da gas e petrolio sono scese al livello più basso da giugno 2021. Con la chiusura del Nord Stream e l'embargo europeo al petrolio russo, l'effetto negativo sulle casse del Cremlino si intensificherà. Per questo Putin fa di tutto per ottenere la rimozione delle misure restrittive stabilite dall'Ue
La reazione russa alle sanzioni e l’impennata dei prezzi dei beni energetici hanno portato nelle casse del Cremlino quasi una volta e mezzo le entrate dello scorso anno. Nel periodo gennaio-agosto 2022, gli introiti fiscali da petrolio e gas hanno raggiunto i 7,8 mila miliardi di rubli, il 43% in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Questo ha consentito al regime di compensare la perdita di entrate dal crollo del resto dell’economia, dalla produzione industriale ai consumi. Ma negli ultimi mesi c’è stata un’inversione di tendenza.
Secondo i dati appena pubblicati dal ministero delle Finanze russo, ad agosto le entrate fiscali dal settore oil and gas sono scese a 672 miliardi di rubli, il 3,4% in meno rispetto allo stesso mese dell’anno scorso e il livello più basso da giugno 2021. E questo nonostante i prezzi elevatissimi, che evidentemente non riescono più a compensare il calo dei volumi esportati: il prezzo del petrolio russo, che è la voce più importante delle entrate, nel mese di agosto è stato più elevato rispetto all’anno scorso (75 dollari al barile contro 68), anche tenendo conto del forte sconto rispetto al Brent (20-30 dollari). Il dato di agosto non è l’inizio dell’inversione di tendenza, ma prosegue la traiettoria che si intravedeva a luglio. Sebbene il mese precedente, infatti, le entrate fossero in leggera crescita rispetto a giugno, il ministero delle Finanze aveva registrato un crollo dei ricavi del 30% rispetto a luglio del 2021 (nonostante il prezzo del barile sia di 6 dollari più alto) e di circa il 10% in meno rispetto alle sue previsioni (-75 miliardi di rubli). Quali sono le ragioni principali di questa flessione?
Sicuramente, come tanti avevano previsto, le sanzioni avrebbero iniziato a mordere di più nella seconda metà dell’anno. I tre canali attraverso cui l’effetto si è propagato sul bilancio sono la forte riduzione delle forniture di gas all’Europa (nonostante l’esplosione del prezzo e gli enormi profitti di Gazprom), la diminuzione dell’export di greggio e prodotti petroliferi ai paesi del blocco occidentale e il forte apprezzamento del rublo. A causa delle sanzioni, in Russia sono crollate le importazioni e questo, insieme al boom delle esportazioni energetiche, ha rafforzato enormemente la valuta, il che non è esattamente una cosa positiva per il bilancio perché vuol dire ricevere meno rubli per ogni dollaro di export di gas e petrolio. Cosa succederà nei prossimi mesi non è facile da prevedere, ma i fattori che hanno portato a ridurre l’export energetico russo dovrebbero rafforzarsi.
Il gas ormai non è più per Putin una risorsa economica, ma un’arma di ricatto da usare contro l’Europa per piegarla. Lo scambio, riapertura del flusso in cambio della rimozione delle sanzioni, è stato esplicitato dal portavoce di Putin Dmitri Peskov dopo la chiusura del Nord Stream. Ciò vuol dire che Putin ha rinunciato ai proventi del gas per ottenere una vittoria strategica. Finora l’abnorme prezzo del gas aveva compensato il taglio delle forniture, ma se la strategia evidente è quella di chiudere completamente il flusso vuol dire che le entrate saranno zero a prescindere dal prezzo (che oggi, dopo una discesa a 220 euro, è ritornato a 240 euro al megawattora).
Anche sul fronte del petrolio, ciò che davvero sostiene le casse del regime, le cose si metteranno su una china complicata per Putin. Finora queste esportazioni verso Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione europea e Corea del sud sono diminuite di circa 2,2 milioni di barili al giorno, ma la Russia è riuscita a reindirizzare circa due terzi di questi volumi verso altri paesi come Cina e India, che hanno approfittato del forte sconto indotto dalle sanzioni. Ma a dicembre entrerà in vigore l’embargo sul greggio russo e a febbraio sui prodotti petroliferi dell’Unione europea, che prima dell’invasione dell’Ucraina assorbiva circa la metà dell’export russo. Anche se l’Europa ha già ridotto di circa 1 milione di barili al giorno le importazioni di greggio russo, la Russia risulta essere ancora uno dei principali fornitori con circa 3 milioni di barili al giorno di greggio e prodotti raffinati importati dall’Ue. Ciò vorrà dire che, in brevissimo tempo, Mosca dovrà trovare nuovi sbocchi.
Se sul gas c’è una carenza strutturale di gasdotti, che impedisce di reindirizzare il flusso europeo in Cina e che necessiterà anni e miliardi di dollari di investimenti per essere risolto, il problema si pone anche per il petrolio che invece può essere più agevolmente spostato via nave. Perché l’Asia sta già acquistando buona parte della produzione russa e difficilmente riuscirà ad assorbire tutto il resto. Le criticità sono poi maggiori per i prodotti petroliferi, visto che Cina e India preferiscono acquistare greggio per raffinarlo attraverso i propri impianti anziché acquistare i prodotti russi.
L’effetto dell’embargo dovrebbe quindi portare a un crollo della produzione che secondo l’Agenzia internazionale dell’energia sarà di 2 milioni di barili al giorno entro gennaio 2023 (-20%), mentre per Standard & Poor’s di 1,5 milioni sotto il livello pre guerra. Inoltre il price cap a cui sta lavorando il G7 dovrebbe avere un ulteriore effetto sul prezzo, che se pure non sarà rispettato da Cina e India dovrebbe comunque aumentare lo sconto sul petrolio russo. I dati mostrano che non è affatto vero che le sanzioni non stiano producendo effetti negativi per la Russia e spiegano perché Putin stia facendo di tutto per ottenerne la rimozione.
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