Una parte dell'ex stabilimento Ilva (LaPresse) 

Il caro gas e il caso Ilva

L'aumento della bolletta e la crisi dell'industria, a partire dall'Ilva

Stefano Cingolani

Il prezzo dell’energia salirà del 90 per cento a ottobre, mettendo in crisi le industrie energivore

Il costo dell’energia crescerà tra l’80 e il 90% di qui a ottobre, un macigno che cala sulle famiglie e sulle imprese. La stima, non ancora pubblica, è sul tavolo di Mario Draghi e getta un’ombra sulle prospettive economiche nell’ultima parte dell’anno. L’impennata è spinta dal gas, segue a ruota il petrolio. Se l’anno scorso sono state le quotazioni dell’oro nero a fare da locomotiva adesso tocca al metano, fortemente influenzato dall’uso politico che il Cremlino fa delle forniture. Il Nord Stream è di nuovo bloccato, l’Eni ha registrato un calo del flusso.

 

Sul mercato il prezzo punta in alto. Il rincaro era partito nell’autunno scorso, ma dal 24 febbraio, giorno dell’attacco russo all’Ucraina, siamo al raddoppio. Se il brent viaggia sopra i 100 dollari al barile, il gas supera i 200 euro a megawattora. Senza l’intervento del governo la bolletta del gas sarebbe aumentata del 45 per cento e quella elettrica del 15 per cento. Rimarranno stabili per il prossimo trimestre e il governo rinnoverà i sostegni, ma è una fatica di Sisifo. Quanto potrà durare l’assegno staccato dal Tesoro con questa spinta travolgente che viene dal mercato?

 

A Palazzo Chigi e Palazzo Sella i tecnici di Draghi e quelli di Daniele Franco stanno cercando di fare i conti sul probabile impatto economico. E’ chiaro che dovrà essere rifatto l’intero quadro in vista della Nota di aggiornamento al Def. Proprio ieri è arrivata la notizia che gli Stati Uniti sono entrati in recessione tecnica perché il pil si è ridotto anche nel secondo trimestre (-0,9 per cento su base annua dopo il -1,6 per cento tra gennaio e marzo). Le previsioni dell’Unione europea mostrano che tutti i paesi membri sono in discesa, sia pure a velocità diversa. Finora l’Italia ha fatto meglio, ma botte come quelle che arrivano dall’energia hanno un impatto pesante. Le industrie più colpite sono petrolchimica, trasporti, siderurgia. E qui si accende un nuovo campanello d’allarme.

 

L’Ilva, ancora lei, rischia grosso. Il 26 luglio sono passati dieci anni dall’intervento della magistratura, la fabbrica non s’è mai fermata, anche se produce ben al di sotto delle potenzialità. A maggio lo stato avrebbe dovuto passare dal 38% al 60% della nuova società con ArcelorMittal, attraverso un aumento di capitale di 680 milioni di euro. Tutto rinviato al 2024. Ma la crisi energetica e la tagliola giudiziaria rischiano di rimettere in discussione la vita dell’azienda. Secondo il presidente di Acciaierie d’Italia, Franco Bernabè, “la quasi totalità degli investimenti ambientali nell’area è stata realizzata e a maggio 2023 gli interventi verranno completati, non c’è alcun dubbio su questo”. Negli ultimi tre anni sono stati investiti 1,1-1,2 miliardi di euro, di cui 700 milioni per la sola parte ambientale. Lo conferma l’Ispra nel rapporto al ministero della Transizione ecologica. Alla magistratura però non basta. In tutto il gruppo gli impianti sono proprietà dell’amministrazione straordinaria e solo in gestione ad Acciaierie d’Italia, quindi non sono a disposizione dell’azienda.

 

La Corte d’assise ha negato il dissequestro uniformandosi al parere negativo della procura, in quanto “la realizzazione parziale delle prescrizioni Aia non sia idonea a garantire la sicurezza”. I No Ilva tarantini, intanto, hanno depositato una nuova denuncia. A questo punto, può diventare necessario procedere con urgenza all’aumento di capitale. Draghi deve averne parlato anche con l’opposizione se Guido Crosetto (FdI) ha sollevato la questione Ilva come una delle urgenze industriali insieme alla sorte di Ita Airways, colpita duramente anch’essa dal caro energia. Si tratta di valutare se tornare al calendario originario, oppure intervenire a rate. Il mercato siderurgico mondiale ha tirato a tutto spiano, se ora arriva la recessione la domanda scenderà di nuovo. Così, non sono stati colti tutti i frutti del boom e l’intervento pubblico avviene in una fase calante per impedire che la “bomba ecologica” diventi bomba sociale.

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