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Le analisi economiche (e non populiste) di Giorgia Meloni

Giuseppe De Filippi

La leader di FdI riconosce il valore politico del taglio del cuneo fiscale e sul salario minimo ricorda che c’è la contrattazione confederale a coprire i rapporti di lavoro. L'Ucraina? "Va sostenuta ma subiamo i ricatti energetici"

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Sembra di percepire uno sforzo di sottrazione in Giorgia Meloni, intervistata da Barbara Fiammeri, sul Sole 24 Ore, dove piazza una serie di concetti non populisti, non faciloni, non beceri. Serve una serie di “non”, e la sottrazione cui facevamo riferimento è quella con cui Meloni sfila, in questa intervista, dalla sua analisi e dalla sua proposta politica qualunque accento salviniano e qualunque eco dei consiglieri anti euro o filo Putin del suo alleato leghista. E’ sul quotidiano confindustriale che, forse anche per cogliere politicamente la distanza tra governo e Confindustria, riconosce il valore politico della proposta di taglio del cuneo fiscale avanzata dagli imprenditori. “E’ anche la nostra proposta”, dice, riferendosi a un taglio da 16 miliardi di cui due terzi ai lavoratori e un terzo alle imprese. Scivola per un attimo sull’idea di finanziare tutto con nuovo debito, “dall’inizio dell’emergenza Covid abbiamo speso 200 miliardi in deficit, crede davvero che non si potevano trovare 16 miliardi?”, ma poi si corregge immediatamente andando a indicare altre partite da tagliare (vabbè, tra cui il reddito di cittadinanza) per quadrare a bilancio l’operazione.

 

Sul salario minimo sistema le cose come fanno tutti quelli che chiedono consigli a chi se ne intende e ricorda che c’è la contrattazione confederale a coprire nel 90 per cento dei casi i rapporti di lavoro. E’ netta sul sostegno all’Ucraina. E aggiunge che subiamo “il ricatto sul gas dalla Russia per non esserci resi energicamente autosufficienti”. Qui ci sono tracce di riflesso condizionato autarchico, perché più che autosufficienti dobbiamo essere indipendenti grazie a multipli fornitori, ma, appunto, è autarchia presente in tracce. E ricorda, opportunamente, come invece “dipendiamo dalla Cina per tutto ciò che riguarda l’elettrico”. L’Europa che non va, battutella sugli insetti a parte, è quella che non si è mossa in tempo per assicurare una sufficiente produzione di microchip e su fronti come l’energia e la difesa. Apprezza il Pnrr e l’idea originaria di debito comune (quindi di più Europa), ma ne chiede, sensatamente, l’adeguamento alle mutate condizioni di prezzi e forniture. Pare che a consigliarla su questi temi sia un economista che ha studiato al Mit, non alle università di Pescara o di Siena.

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