Come allentare il cappio di Putin

La strategia per ridurre la dipendenza da Mosca passa dalla diplomazia dell'Eni

Stefano Cingolani

Diversificare è la parola d’ordine e questo significa più ricerca e più produzione ampliando le fonti. Draghi e Descalzi indicano la via

Roma. L’Eni è una Farnesina parallela, così si dice fin dai tempi di Enrico Mattei. Ebbene, con la guerra in Ucraina le due linee hanno cominciato a convergere. Per il momento si sono ritrovate ad Algeri, poi sarà la volta del Congo, dell’Angola, del Mozambico. L’accordo raggiunto ieri alla presenza di Mario Draghi e del presidente algerino Abdelmadjid Tebboune prevede un aumento graduale dei volumi di metano fin da quest’autunno per arrivare a 9 miliardi di metri cubi in più dal 2023-24 attraverso il gasdotto Transmed, superando così i 30 miliardi, ben oltre la quantità fornita da Gazprom. Non è un’alternativa completa al gas russo, ma il cappio di Putin può essere allentato. E c’è un aspetto nient’affatto secondario che val la pena sottolineare: mentre il metano della Siberia appartiene a Mosca, quello estratto dai giacimenti algerini, da quelli libici, dal grande bacino al largo dell’Egitto o dal Congo, viene gestito in concessione dall’Eni che ha contribuito in modo determinante a scoprirlo. Un’altra tappa nel lungo cammino verso una minore dipendenza energetica. Anche le concessioni possono essere revocate e il Nord Africa non è uno scacchiere esattamente stabile. Per questo servono accordi politici: la missione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, la visita di stato del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il viaggio di Draghi vanno in questo senso. 

 

Il capo del governo italiano si recherà via via nei paesi africani dove l’Eni svolge un ruolo di punta. Claudio Descalzi, l’amministratore delegato della maggiore multinazionale italiana, ha preparato ovunque il terreno nelle scorse settimane. Scattate le sanzioni, ha annunciato che non comprerà più petrolio dalla Russia e scioglierà ogni residuo legame a parte il contratto con Gazprom che continuerà a onorare in euro, così come è scritto. Poi ha messo in moto quella “strategia africana” alla quale ha dedicato la sua vita professionale. Una rete basata sulla ricerca, l’estrazione, la produzione di risorse energetiche, idrocarburi innanzitutto, ma anche fotovoltaico in particolare proprio in Algeria. 

 
Il 20 marzo, nel pieno dell’aggressione russa in Ucraina, l’Eni ha annunciato la scoperta nella concessione di Zemlet el Arbi operata insieme alla Sonatrach, l’azienda algerina controllata dal governo che ne detiene il 51 per cento, di un giacimento che può fornire sia petrolio sia metano. C’è poi il gas liquefatto del Congo, l’Eni ha intenzione di attivare l’anno prossimo un progetto rimasto in stand by: si tratta di 5 miliardi di metri cubi da destinare in parte all’esportazione dal 2023. E poi c’è il Qatar dove Di Maio e Descalzi si sono recati il 5 marzo: dall’emirato e dall’Egitto arriveranno 3 miliardi di metri cubi quest’anno e 5 nel 2023. 

 

Senza questa vasta intelaiatura industriale non sarebbe possibile compiere la repentina virata strategica imposta dalla guerra di Putin, ma che stava già covando da tempo. Diversificare è la parola d’ordine e questo significa più ricerca e più produzione ampliando le fonti. L’Eni non è solo una società di trading, non lo è mai stata, ma senza dubbio il mega contratto trentennale con Gazprom era diventato dominante. Il piano firmato proprio nel 2006 niente meno che dal ministro delle Attività produttive Claudio Scajola prevedeva ben 11 rigassificatori, ma furono bloccati per diversi veti e perché il metano liquefatto non conveniva, e allo shale americano venne preferito il gas siberiano. 

 
Negli ultimi anni l’Eni ha rafforzato il proprio mestiere principale, con risultati notevoli come i mega giacimenti Noor e Zohr, le più grandi scoperte mai fatte nel Mediterraneo, al largo dell’Egitto. E ha messo a disposizione le sue capacità tecnologiche e il suo patrimonio di conoscenze. Ma il Cane a sei zampe da solo non basta, ci vogliono gli impianti di rigassificazione e di stoccaggio, inoltre bisogna trivellare anche in Italia per aumentare la produzione domestica di gas. E questo, benché una svolta da parte del governo c’è stata, sarà ben più difficile che firmare accordi ad Algeri o a Luanda

Di più su questi argomenti: