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Tutti i problemi della carbon tax

Chicco Testa

Il duplice rischio di scatenare una guerra commerciale e l'aumento dei prezzi è reale. Restituire il gettito direttamente nelle tasche dei cittadini diminuendo la pressione fiscale è la soluzione più onesta e trasparente 

Il primo assiduo sostenitore di una carbon tax come strumento per fare lavorare il mercato a favore della decarbonizzazione è stato l’Economist, che da anni ripropone il tema con costanza. Meglio una carbon tax, è il ragionamento, piuttosto che un eccesso di regolamentazione e di spesa pubblica. Oggi la carbon tax sembra all’ordine del giorno nella doppia versione proposta dal Fondo monetario internazionale (Fmi) da applicare in tutti i paesi del G20 e dall'Unione europea come tassa “difensiva” sui prodotti di importazione ad alto contenuto di carbonio. Detto questo, cominciano i problemi. Il primo è che la proposta europea in discussione questa settimana appare al Fmi come “protezionista”. Limita, in altre parole, la libertà di commercio e apre la porta a contromosse, dazi messi dai paesi colpiti sulle merci europee, assolutamente non desiderabili. Potremmo trovarci in men che non si dica nel mezzo di una guerra commerciale dagli esiti funesti.

 

Un secondo problema è l’inevitabile aumento dei prezzi che ne conseguirebbe. Con effetti fortemente regressivi: in proporzione, chi meno guadagna più paga. Una dimostrazione la si è avuta pochi giorni fa con l’impennata a doppia cifra del costo delle bollette dell’elettricità e del gas. Al punto tale che il governo è dovuto intervenire fiscalizzando per circa 1 miliardo una parte degli oneri che gravano sulle bollette per ridurre l’impatto degli aumenti, una parte consistente dei quali è dovuta alla crescita del prezzo della CO2 nei meccanismi di scambio europei. 

 

Se a questo si aggiunge l’aumento del costo delle materie prime, a cominciare dal petrolio e quindi della benzina, forse abbiamo buone notizie per l’ambiente ma molte cattive notizie per le tasche dei cittadini. Se poi dovessimo registrare contemporaneamente un aumento dei prezzi interni e dazi sulle merci esportate magari verso la Cina, moda e mobili per esempio, l’effetto sarebbe quasi catastrofico. Fino a dove si può spingere una situazione di questo genere senza produrre effetti sociali non controllabili? La rivolta dei gilet gialli francesi è lì a ricordarcelo. Ed è abbastanza sconcertante che non esista uno studio approfondito sulle conseguenze economiche delle politiche di decarbonizzazione. Si procede a vista.

 

Il Fmi ha recentemente stimato a 75 dollari il prezzo ottimale della CO2 prodotta per ottenere cambiamenti virtuosi. Questo comporterebbe un aumento del costo del gas per i consumatori finali italiani attorno al 50 per cento e del 18 per cento per l’elettricità. Una stangata per le famiglie e per le imprese. Solo del 9 per cento invece per la benzina, per la semplice ragione che le accise sono già molto alte.

 

C’è un modo onesto, trasparente e netto per risolvere il dilemma e salvaguardare l’efficacia della carbon tax. Restituire il gettito che ne deriverebbe direttamente nelle tasche dei cittadini diminuendo di un uguale ammontare la pressione fiscale. Tasso l’ambiente ma detasso il lavoro. Abbiamo letto invece una proposta di Frans Timmermans, allegro commissario per il Clima e il Green Deal, che ha in mente l’istituzione dell’ennesimo fondo, il Fondo sociale per l’azione climatica, che dovrebbe concedere sussidi ai più colpiti. In altre parole: prendo i soldi e decido io a chi restituirli, tanto per semplificare le cose. Magari con una nuova stagione di incentivi per questo e quell’oggetto “ecosostenibile”. Ma non sarebbe più semplice diminuire in ugual misura la pressione fiscale? Oltretutto in questo modo si escluderebbero dai benefici gli evasori fiscali senza tasse da ridurre.

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