Marco Balich (Ansa) 

Come cambia il lavoro dopo la pandemia /5

"È la fine della divisione rigida tra tempo libero e lavorativo". Parla Marco Balich

Marianna Rizzini

I grandi eventi, le Olimpiadi, le priorità della vita e la necessità di alzare gli occhi. Intervista all'organizzatore della cerimonia inaugurale di Tokyo 2020

Ha fondato una società che crea e gestisce grandi show, celebrazioni ed eventi globali e che ha tra i suoi obiettivi quello di aiutare a dare “emotività” ai luoghi, belli o brutti che siano (da cui l’idea di mettere accanto al padiglione italiano dell’Expo 2015 “L’Albero della vita”). Qualche anno fa, con lo show “immersivo” “Il Giudizio universale”, esperimento multimediale e viaggio tecnologico nelle meraviglie della Cappella Sistina, ha sollevato il dibattito attorno al tema “fruizione delle opere d’arte e pubblico giovane”, con puristi da un lato e innovatori dall’altro. E stavolta Marco Balich, che un tempo viaggiava tra continenti anche per 48 ore più volte al mese, è in partenza – dopo tanto tempo – per la Tokyo olimpica, dove, pur senza pubblico (questa pare l’ultima decisione), la cerimonia di apertura avrà, come altre tredici volte, la sua firma, in qualità di senior advisor del produttore esecutivo. Un advisor che ha visto la finale degli Europei di calcio da una stanza d’albergo, alle 5 del mattino, in isolamento post-volo.

 

Dopodiché ha ripreso a seguire tutta la preparazione, fino al 23 luglio, primo giorno olimpico. “All’inizio del 2020”, racconta Balich, “stavamo lavorando allo show ed eravamo molto avanti. Poi la pandemia: il comitato organizzativo ha voluto azzerare tutto. Il concetto era: con il panico intercontinentale creato dal virus la cerimonia d’apertura non può essere festosa e proiettata verso il futuro. Motivo per cui inizialmente abbiamo dovuto cambiare rotta”. In mezzo c’è stato anche un episodio diventato virale: il presidente del comitato organizzatore Yoshiro Mori e la sua frase sulle donne che parlano troppo durante le riunioni. Apriti cielo: Mori si è dovuto dimettere. Non solo: nel copione originario della cerimonia era prevista la partecipazione dell’influencer e attrice dal fisico robusto Naomi Watanabe. Succede che a un certo punto il direttore creativo Hiroshi Sasaki avanza l’idea di farla vestire da maiale (“olympig”, era la non felice battuta). Ri-apriti cielo: anche Sasaki si deve dimettere. E insomma Balich, a questo punto, deve apparire agli addetti come una sorta di grande saggio, anche visto il successo della precedente cerimonia di apertura a Rio, vista da circa 2 miliardi e ottocento milioni di persone, con il suo focus sulla storia del Brasile e sulla foresta amazzonica. “È come se adesso la pandemia”, dice Balich, “avesse da un lato azzerato e dall’altro sensibilizzato governi e cittadini, ed è un’enorme soddisfazione per me vedere che gli italiani vengono chiamati e ascoltati per organizzare questo tipo di eventi, in un momento di grande evoluzione”. 

 

Un prima e un dopo pandemia esiste a livello pratico, ma per Balich il tutto ha risonanza anche e forse soprattutto a livello di elaborazione interiore collettiva: “È vero che l’accelerazione digitale ha cambiato le modalità nei processi creativi, tanto più nella produzione dei grandi eventi, ma – lo abbiamo visto adesso durante gli Europei – le persone hanno bisogno di incontrarsi, di sognare insieme. Il sogno nella propria cameretta non funziona. Il dato fondamentale da tenere conto, ora, è la diversa percezione delle priorità della vita, nostra e del pianeta. Siamo consapevoli dei danni che possono scaturire da un tipo di mentalità non eco sostenibile, dalla prepotenza che cancella l’inclusività, dal dare importanza alla dimensione economica senza pensare anche alla qualità della vita”. Altro elemento di novità da non sottovalutare, dice Balich, “è la fine della divisione rigida tra tempo libero e tempo lavorativo. E in questa nuova realtà è come se avessimo alzato lo sguardo verso chi ci circonda: c’è un bisogno prepotente di comunità, condivisione e socialità”.

 

Non per niente Balich, con il suo Balich Wonder Studio, ha ideato “master plan creativi” da affiancare a progetti urbanistici di riqualificazione. “Facciamo eventi che parlano al pubblico a livello emotivo, e allora forse possiamo essere utili nella ricerca dell’identità di un luogo. Così è nato l’Albero della vita, sorta di magnete accanto al padiglione italiano all’Expo. Mi dicevo: serve qualcosa che possa spingere la gente ad alzare gli occhi, fisicamente e metaforicamente. Si possono fare operazioni simili in tanti angoli delle nostre città, per tirare fuori l’anima di una piazza, per riattivare energie in un quartiere disagiato. Se c’è un luogo brutto, chiediamoci come possiamo renderlo più bello. Senza sovrapporsi agli studi di architettura, come la glassa sulla torta. L’entertainment non è soltanto vagheggiamento di mondi lontani. Può essere applicato al qui e ora, alla vita nella strada accanto”. 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.