Cosa c'è da rivedere nel capitolo sul lavoro del Recovery plan

Maurizio Del Conte

A un anno dai primi provvedimenti sulla cassa Covid è ora di investire in interventi strutturali: serve un piano con tempi certi che affronti il nodo della governance istituzionale, gli obiettivi di occupabilità e i processi organizzativi 

Gli analisti faticano a formulare previsioni sulle prospettive del lavoro nei prossimi mesi. Si attende con apprensione il ritorno alla normalità, che segnerà anche la fine del blocco dei licenziamenti. Se nelle proiezioni più ottimistiche si coltiva la speranza che non si verifichi un vero e proprio “giorno del licenziamento”, con migliaia di esuberi pronti a scattare non appena si scongelerà un mercato del lavoro tenuto in freezer per un tempo senza precedenti, è pressoché unanime la previsione di una grave emorragia di posti di lavoro, destinata a durare a lungo. 


Dall’inizio della pandemia si sono già spesi venti miliardi di euro in cassa integrazione guadagni per mantenere in vita posti di lavoro il cui destino è incerto. E’ ormai trascorso un anno dai primi provvedimenti sulla cassa Covid. Un anno speso tutto in difesa passiva, aspettando che passasse la nottata. Nel frattempo, dall’Europa è arrivato il Next Generation Eu. Una iniezione di risorse, parzialmente a fondo perduto, per sostenere l’uscita dalla crisi attraverso investimenti strutturali per dare slancio alla transizione verso una nuova stagione di crescita digitale, verde e sostenibile. Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) presentato dal governo italiano compare anche, come richiesto dalle indicazioni europee, un capitolo dedicato al lavoro e alle misure che il nostro paese intende intraprendere. Ma la vaghezza degli obbiettivi e, soprattutto, del percorso finalizzato a conseguirli, suscita non pochi dubbi sulla sua idoneità a soddisfare le condizioni poste dalla Commissione europea per la concessione dei fondi. Perché quelle risorse arriveranno solo se avremo chiarito per quali obbiettivi, attraverso quali strumenti e in quali tempi l’Italia intende spenderli. Per farlo occorre sciogliere alcuni nodi che, nella bozza di Pnrr, sono stati ignorati o ne è stata trascurata l’importanza.


Il conflitto tra stato e regioni

Innanzitutto, per costruire una riforma efficace dei servizi per il lavoro occorre affrontare il nodo irrisolto della governance istituzionale. Dopo il fallimento del referendum sul titolo V della Costituzione, non si è mai voluto affrontare seriamente la questione della competenza concorrente tra stato e regioni in questa materia. Sulla carta, spetta allo stato la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, mentre alle regioni è riservata la gestione e l’erogazione dei servizi sul territorio. Ma, nella realtà, si è sperimentato che questa ripartizione di compiti non è affatto così netta. Da un lato ogni regione si riserva la prerogativa di creare misure e strumenti a propria immagine e somiglianza, con il risultato di vanificare gli sforzi di armonizzazione degli standard, la realizzazione di economie di scala e la creazione di un unico ed efficiente sistema informativo in grado di monitorare in tempo reale la situazione della domanda e dell’offerta di lavoro su tutto il territorio nazionale. Dall’altra parte lo stato ha provato maldestramente a scavalcare le competenze delle regioni con l’avventura “a tempo determinato” dei navigator, improvvidamente proposta da Anpal in occasione della fasi di avvio del reddito di cittadinanza, senza avere né il titolo né l’infrastruttura territoriale adeguata. La realtà è che non ci sarà nessun piano credibile sulle politiche attive del lavoro se stato e regioni non si siederanno attorno a un tavolo, con spirito di leale collaborazione, e non definiranno uno chiaro e condiviso sistema di governance che individui con precisione i livelli decisionali e quelli gestionali e fissi gli obbiettivi ai quali dovranno essere vincolate ogni misura e ogni finanziamento.


L’autogol e i limiti del Pnrr

Venendo al merito dei contenuti delle misure per il lavoro previste dal Pnrr, una misura tutta da chiarire è il cosiddetto “Gol” (Garanzia di occupabilità dei lavoratori), peraltro già anticipato nelle sue linee essenziali in legge di bilancio per il 2021. Ma già dal titolo si intuisce un problema. Evidentemente, forse spaventato dalla prospettiva di dover rispondere del successo o dell’insuccesso della misura attraverso la verifica dei crudi dati numerici, il governo ha preferito ripiegare sul meno stringente obbiettivo della occupabilità anziché della occupazione. Dunque il “gol” non è quello di portare i disoccupati a un lavoro, ma di sottoporli a una serie di “trattamenti” che dovrebbero aumentarne l’occupabilità. Intendiamoci, migliorare la “spendibilità” dei disoccupati nel mercato del lavoro è attività utile e meritoria. Senonché le misure di rafforzamento della occupabilità previste dal “Gol” sono il larga misura attività già da molto tempo previste dalla disciplina in materia: presa in carico del disoccupato da parte dei centri per l’impiego, bilancio delle competenze, orientamento professionale, avviamento a percorsi formativi. In sostanza, si è trasformato in obbiettivo una serie di attività già presenti nell’ordinaria routine dei servizi per l’impiego e che, purtroppo, si sono dimostrare poco efficaci in termini di risultati occupazionali. Così impostato, il “Gol” rischia di rivelarsi un pessimo segnale per la Commissione europa, che non finanzia le spese per le attività correnti e che da tempo ci chiede di innovare le politiche attive e di incentivare le misure legate agli inserimenti lavorativi effettivi. Come è stato, nel 2017, con l’assegno di ricollocazione, ucciso nella culla per fare spazio al reddito di cittadinanza. La buona notizia è che, parallelamente al Gol, il Pnrr resuscita proprio l’assegno di ricollocazione in favore di tutti i disoccupati che hanno perso il lavoro. Ma allora, se volgiamo convincere l’Europa, è su questo strumento che dovremmo investire in termini di risorse e nuova progettualità, andando a correggere i difetti emersi nella prima fase di sperimentazione.

 

Altro aspetto da chiarire è la definizione dei processi organizzativi, troppo spesso confusi con le procedure amministrative. In sostanza, si deve passare da una impostazione per adempimenti burocratici a un approccio manageriale che segua la catena del valore dei servizi ai cittadini. Si prenda, ad esempio il cruciale raccordo tra le attività di tutoraggio del disoccupato e l’indirizzamento a precorsi formativi coerenti alla domanda delle imprese. Purtroppo, nell’attuale bozza del Pnrr, siamo fermi alle enunciazioni di principio e alla ripetizione ossessiva di parole come “formazione”,“upskilling” e “reskilling”, senza che se ne chiarisca il significato né gli strumenti per trasformare quelle parole in corsi di formazione finalizzati all’inserimento lavorativo. E’ noto quanto in Italia la formazione professionale sia una galassia che, attorno ad alcuni soggetti di solida tradizione e di comprovata eccellenza, aggrega una miriade di micro enti, i cui prodotti formativi non vengono sottoposti a verifica né sotto il profilo della qualità né della efficacia. Occorre quindi stabilire criteri rigorosi per la selezione dei soggetti della formazione, rivedendo i meccanismi di accreditamento e vincolando i finanziamenti a sistemi oggettivi e trasparenti di valutazione di impatto. Nel Pnrr si sono inopinatamente rispolverati i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti. Bene preoccuparsi della povertà educativa che ancora affligge parte della popolazione adulta italiana, ma cosa c’entra con la non più rinviabile necessità di allineare la formazione professionale alle competenze tecniche invano ricercate dalle imprese, che spesso si vedono costrette a rivolgersi all’estero?


Oltre al “come” manca il “quando”

Un ultimo, ma decisivo, nodo da sciogliere è quello relativo ai tempi di realizzazione del piano. Nella bozza attuale non si indicano né le priorità né un “tableau de bord” strutturato in modo da consentire un costante controllo sullo stato di avanzamento delle attività. Una mancanza che riflette la cattiva abitudine italiana di legare i destini delle riforme alla sola parte regolatoria, trascurando la fase di esecuzione. L’Italia ha la non felice fama di gestire i fondi europei rimandando al termine ultimo di scadenza la rendicontazione degli impegni di spesa e delle spese effettivamente sostenute, trovandosi non di rado nella condizione di sprecare preziose risorse economiche. Con il Pnrr non ci sarà concesso. Il governo dovrà mettere a punto un programma capace di convincere in anticipo le istituzioni europee non soltanto della coerenza delle nostre misure con le indicazioni contenute nel Next Generation EU, ma anche della capacità di tutte le amministrazioni coinvolte di rispettare i tempi della loro implementazione.

Di più su questi argomenti: