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Un draghi alla lettera

Carlo Stagnaro

Sono passati dieci anni dalla famosa lettera della Bce con cui l’agenda Draghi fece il suo primo ingresso in politica. Dieci anni dopo cosa è cambiato? E da dove riparte l’ex governatore? Una controindagine

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Col voto di fiducia al governo Draghi si chiude un cerchio aperto il 5 agosto 2011. Fu in quella data che l’allora governatore della Banca d’Italia e futuro presidente della Banca centrale europea firmò, assieme all’uscente Jean-Claude Trichet, la famosa lettera con cui l’Eurotower sollecitava il nostro paese a darsi da fare. “Il Consiglio direttivo – scrivevano – ritiene che l’Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali”. Infatti, “il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti, ma non sufficienti”. Proprio quel giorno lo spread sfiorava i 390 punti base, più del doppio rispetto ai 173 di inizio anno ma ancora lontano dal picco di 574 punti (9 novembre). La lettera avrebbe innescato conseguenze politiche enormi, di cui oggi in qualche modo osserviamo gli ultimi bagliori. Ma dal punto di vista della policy cosa è successo? Le indicazioni di Draghi e Trichet si articolavano in due gruppi: l’uno relativo alle riforme strutturali, l’altro alla messa in sicurezza delle finanze pubbliche. Di seguito riportiamo il testo della lettera, cercando di capire in quale misura abbia trovato attuazione e, quindi, implicitamente, quanta strada resti ancora da fare.

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Col voto di fiducia al governo Draghi si chiude un cerchio aperto il 5 agosto 2011. Fu in quella data che l’allora governatore della Banca d’Italia e futuro presidente della Banca centrale europea firmò, assieme all’uscente Jean-Claude Trichet, la famosa lettera con cui l’Eurotower sollecitava il nostro paese a darsi da fare. “Il Consiglio direttivo – scrivevano – ritiene che l’Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali”. Infatti, “il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti, ma non sufficienti”. Proprio quel giorno lo spread sfiorava i 390 punti base, più del doppio rispetto ai 173 di inizio anno ma ancora lontano dal picco di 574 punti (9 novembre). La lettera avrebbe innescato conseguenze politiche enormi, di cui oggi in qualche modo osserviamo gli ultimi bagliori. Ma dal punto di vista della policy cosa è successo? Le indicazioni di Draghi e Trichet si articolavano in due gruppi: l’uno relativo alle riforme strutturali, l’altro alla messa in sicurezza delle finanze pubbliche. Di seguito riportiamo il testo della lettera, cercando di capire in quale misura abbia trovato attuazione e, quindi, implicitamente, quanta strada resti ancora da fare.

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1. Vediamo l’esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti sociali. Tuttavia, occorre fare di più ed è cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l’aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l’efficienza del mercato del lavoro.

 

Il tema della crescita potenziale è, da più di un decennio, al centro delle raccomandazioni della Commissione europea e di tutti gli organismi internazionali, oltre che del lavoro di molti economisti. Per meglio comprendere il tono della lettera, bisogna ricordare che, nel 2011, si sentiva ancora l’onda dei grandi pacchetti di direttive e regolamenti europei, che tra la metà degli anni Novanta e i primi Duemila avevano portato all’apertura di settori quali l’energia, le telecomunicazioni, i trasporti. L’enfasi sui servizi rifletteva la consapevolezza che l’esposizione al commercio internazionale aveva costretto le imprese manifatturiere a investire e innovare per non essere travolte dalla concorrenza estera. Era invece nei “non tradeable” e nella qualità della pubblica amministrazione che emergevano tutti i limiti del nostro paese, con conseguenze dirette e misurabili sulla competitività. 

 

a) E’ necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.

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E’ superfluo dire che questo punto è caduto nel vuoto. Non solo non c’è stato alcun processo di privatizzazioni su larga scala, ma le poche e parziali cessioni (per esempio, la quotazione di Poste Italiane) sono state più che controbilanciate dal ritorno prepotente dello Stato azionista (gli esempi più clamorosi sono Tim, Alitalia e Ilva). Inoltre, a partire dal 2020, sulla scorta dell’emergenza Covid, la Cassa depositi e prestiti e Invitalia sono diventate l’epicentro di una nuova espansione della proprietà pubblica. Per quanto riguarda i servizi pubblici locali, col senno di poi i cambiamenti sono stati in chiaroscuro: da un lato gli obblighi di gara sono venuti meno e si fa fatica a procedere con le assegnazioni competitive perfino nei comparti teoricamente più avanzati (come la distribuzione locale del gas). Dall’altro, la qualità della regolamentazione ha fatto enormi passi avanti, per esempio nell’acqua e nei rifiuti, dove le competenze sono state in gran parte assegnate a un regolatore indipendente (l’Arera) con l’adozione di metodi tariffari razionali e un notevole aumento della trasparenza. In altri campi, come il trasporto pubblico locale o il trasporto ferroviario non ad alta velocità, siamo ancora all’anno zero. Negli ordini professionali la situazione è complessivamente migliorata (per esempio con la possibilità di soci di capitale nelle farmacie e negli studi legali) ma ci sono state anche inversioni a U (la reintroduzione del divieto di patto di quota lite e, soprattutto, il ritorno mascherato delle tariffe attraverso il cavallo di Troia dell’equo compenso).

 

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b) C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L’accordo del 28 giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi.

Il mercato del lavoro è stato profondamente modificato dalla riforma Fornero e, soprattutto, dal Jobs Act. Questi provvedimenti ne hanno aumentato la flessibilità, oltre ad avviare il processo per la creazione di un sussidio di disoccupazione universale e l’introduzione di un sistema di politiche attive. Tuttavia, tali progressi sono stati in parte cancellati dal referendum costituzionale del 2016 e da alcune decisioni della Corte costituzionale. Le politiche attive e l’Anpal che avrebbe dovuto occuparsene sono state ridimensionate se non piegate ad altri fini (il reddito di cittadinanza). Inoltre, gli interventi più recenti, come il decreto Dignità, hanno fatto ingranare la marcia indietro. Da marzo 2020, inoltre, è in vigore il blocco dei licenziamenti, un intervento senza precedenti per durezza ed estensione. In pratica, tutte le misure adottate dopo il Jobs Act, sia prima, sia durante la pandemia hanno minato la flessibilità del mercato. La riforma del sistema contrattuale è, nei fatti, bloccata. Non solo: il tentativo di scongiurare le crisi aziendali attraverso le nazionalizzazioni, il ricorso abbondante all’istituto opaco dell’amministrazione straordinaria e l’utilizzo sconsiderato dei sussidi ha impedito e reso ancora più vischioso quel processo di riallocazione dei fattori che Draghi e Trichet indicavano come cruciale per promuovere la ripresa della produttività.  

 

 

2. Il Governo ha l’esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche.
 

a) Ulteriori misure di correzione del bilancio sono necessarie. Riteniamo essenziale per le autorità italiane di anticipare di almeno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottate nel pacchetto del luglio 2011. L’obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell’1 per cento nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa. E’ possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi.

 

Il deficit si è sempre mantenuto al di sopra del 2 per cento (tranne che nel 2019, quando è sceso all’1,6 per cento). Conseguentemente il debito è andato crescendo, seppure a un tasso modesto, per poi esplodere nel 2020. Dopo la benemerita riforma Fornero, le pensioni sono state oggetto prima di piccoli (ma costosi) interventi chirurgici, e poi della controriforma di Quota 100. La spesa per il pubblico impiego, che era pari a 171 miliardi di euro nel 2011, dopo un lieve calo ha ripreso a crescere e nel 2019 ha raggiunto i 173 miliardi.

 

b) Andrebbe introdotta una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli obiettivi di deficit sarà compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali. I governi hanno fatto ampio ricorso alle clausole di salvaguardia, ma dal lato del prelievo, ipotecando incrementi dell’Iva e delle accise che, però, sono stati quasi sempre e quasi interamente scongiurati a deficit. 

 

c) Andrebbero messi sotto stretto controllo l’assunzione di indebitamento, anche commerciale, e le spese delle autorità regionali e locali, in linea con i principi della riforma in corso delle relazioni fiscali fra i vari livelli di governo. Vista la gravità dell’attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di Settembre 2011. Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio.

 

Nel 2012 il Parlamento ha dato il via libera alla modifica dell’articolo 81 della Costituzione, con l’obbligo di mantenere il bilancio in equilibrio. Da allora, ogni anno le Camere hanno deliberato l’esistenza di circostanze eccezionali in forza delle quali era ammesso un rinvio dell’obiettivo. Di fatto, sono stati i mercati e i vincoli europei a garantire un minimo di disciplina di bilancio. E’ invece migliorata l’azione dello Stato pagatore, con un significativo ridimensionamento dei crediti commerciali e un miglioramento dei tempi per il saldo delle fatture. Non è chiaro se i controlli siano rimasti abbastanza incisivi e, di conseguenza, se le amministrazioni pubbliche non abbiano ripreso ad accumulare arretrati.

 

3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell’amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l’efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l’uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione). C’è l’esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali.

 

L’intervento dei commissari per la spending review (Piero Giarda, Enrico Bondi, Carlo Cottarelli, Roberto Perotti, Yoram Gutgeld, Laura Castelli e Massimo Garavaglia) ha prodotto alcuni miglioramenti nella qualità della spesa, specialmente per quanto riguarda l’approvvigionamento di beni intermedi. Raramente sono stati adottati indicatori di performance e quasi mai con effetti concreti sull’allocazione della spesa. Le Province sono state razionalizzate ma non abolite. 

 

In conclusione, è oggettivamente difficile riproporre oggi i contenuti della lettera del 2011. Il contesto di finanza pubblica e internazionale è totalmente diverso, anche al netto del Covid. Dal punto di vista politico, ciò che allora appariva possibile (si pensi alla liberalizzazione dei servizi pubblici locali) oggi lo è molto meno. Eppure, gran parte dei temi rimangono di attualità: con qualche eccezione, le richieste di Draghi e Trichet sono state disattese o hanno trovato applicazioni meccaniche e parziali, e in alcuni casi le riforme sono state smontate. Rimane il fatto che l’analisi di fondo della crisi italiana – che prescindeva dalla dinamica speculativa allora come prescinde dal coronavirus oggi – rimane valida: il problema del nostro paese sta nella crescita potenziale, nella inefficiente allocazione dei fattori e nell’incapacità di tenere il passo delle trasformazioni strutturali dettate da globalizzazione e cambio tecnologico.  Nel 2011 le riforme dovevano accompagnarsi a un durissimo consolidamento fiscale e questo ne moltiplicò l’impopolarità. Chissà se la disponibilità dei fondi europei e di Next Generation Eu consentirà oggi a Draghi di realizzare ciò che chiese, e perlopiù non ottenne, dieci anni fa.

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