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Dove osano le élite

Michele Masneri

Che silenzio intorno al centenario di Gianni Agnelli, eppure quanta voglia di borghesia, possibilmente alta, dopo la stagione degli incompetenti in ciabatte. La station wagon al Quirinale, il gessato, il Cav. a Roma: il nuovo corso

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Era nato lo stesso anno del partito comunista italiano. Magnifica coincidenza per due esistenze, quella del Pci e di Gianni Agnelli (1921-2021), con grandi differenze anche tra i festeggiamenti. Mentre tutti oggi invocano la storia gloriosa del partitone di Togliatti, inclusivo e moderno e riformista, sull’erede di quella che era la Fiat – poi Fca, poi Stellantis – pare calato il silenzio più totale.

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Era nato lo stesso anno del partito comunista italiano. Magnifica coincidenza per due esistenze, quella del Pci e di Gianni Agnelli (1921-2021), con grandi differenze anche tra i festeggiamenti. Mentre tutti oggi invocano la storia gloriosa del partitone di Togliatti, inclusivo e moderno e riformista, sull’erede di quella che era la Fiat – poi Fca, poi Stellantis – pare calato il silenzio più totale.

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Un po’ perché tutto si è velocizzato, e di vite e anniversari e storie ce ne sono troppe, un po’ perché forse una figura come quella dell’Avvocato oggi non avrebbe più niente da dire a nessuno. Sessista (“solo le cameriere si innamorano”), maschilista (“andavo a Capri quando le contesse facevano le mignotte, ora che è il contrario non mi diverte”), soprattutto élitista, era un simbolo vivente del patriarcato quando questo era una bella parola. Era, anche, un simbolo delle vituperate élite quando queste sembravano normali, non le si chiamava neanche così: non c’era bisogno di dar loro un nome, c’erano e basta, e tutti sognavano e studiavano per farne parte, un giorno, anche tramite quel PCI di cui sopra.

 

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C’erano pubblicazioni apposite, non libretti rossi ma quel leggendario Capital uscito nel 1981 che spiegava come si faceva, ai nuovi ricchi: a mangiare, a parlare, cosa dire, cosa non dire, andare al golf, dare la tredicesima alla cameriera (ma non solo Capital: senza Internet, c’era tutta una pubblicistica. La più bella ragazza di Roma, Lina Sotis, spiegava, dopo aver fatto il più bel matrimonio di Milano: “se siete un arrampicatore sociale o una coppia che vuole entrare in società, ricordatevi che c'è un solo segreto: la tempistica e la pazienza. Se gli altri se ne accorgono la vostra scalata è finita prima di cominciare”). Bisognava lavorare per diventare élite. Non era mica facile. Anche Agnelli prima di diventare Agnelli aveva faticato: non bastava il brand, l’esser nati nella prima prosapia piemontese, con un nonno (il “Senatore”, altra parola che all’epoca indicava prestigio, e non scatolette di tonno e tagli) che aveva messo su la prima fabbrica di auto italiane, convertita durante la guerra, occupata dagli operai, sopravvissuta alla stessa guerra (con qualche flirt fascista).

 

Non bastava innestare le numerose sorelle nei migliori ma illiquidi casati italiani e europei; bisognava proprio studiare: fondamentale un celebre istitutore antifascista, Franco Antonicelli, e poi i migliori master all’estero sotto forma non di DAD ma di fidanzamenti con Pamela Harriman nuora Churchill, per entrare nei meglio circoli internazionali – e certo è incredibile che con tutto questo materiale non ne sia mai stata tratta una serie, e solo il film francamente scarso Hbo di qualche anno fa. Antonicelli poi era il collegamento con un altro simbolo di vituperato elitismo dell’epoca, Alberto Arbasino, altro anniversario non celebrato (1930-2020), che ad Agnelli vivo aveva dedicato ritratti divertiti quant’era possibile, nell’Italia in cui l’Avvocato era sovrano senza corona: all’eleganza dei revers e al gusto dei quadri nelle varie residenze, scriveva Arbasino, non corrispondevano le linee e i dettagli di certi modelli Fiat, la 128, la Duna… Ma tutti e due, Agnelli e Arbasino, erano simboli di un’Italia che cercava il più possibile di tirarsi fuori dalla dimensione provinciale e paesana e subalterna: con la famosa gita a Chiasso (o  New York o Gstaad).

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C’era il vitalismo, c’era soprattutto la sprezzatura – il prender sul serio sublimi vaccate e ignorare questioni serie, e lì scherzi e battute e il costruire una vita che imita l’arte, magari perdendosi qualche pezzo di sé nella costruzione di un mito  che sopravvivesse ai propri creatori. All’editore Dino Fabbri, orgoglioso della sua nuova Rolls, Agnelli: bella sì, ma che interni di merda. Una macchina vera deve aver almeno i sedili Luigi XVI, naturalmente con le gambe tagliate (e gli italiani tagliavano, o, sprovvisti di Rolls, correvano a mettersi gli orologi sul polsino). Cattiverie gratuite, col fratello Umberto che poi andrebbe molto rivalutato, anche solo per aver tirato fuori quel Marchionne che salvò la baracca. Ma all’epoca, quando sposava in prime nozze l’erede Piaggio: “un matrimonio a sei ruote non può funzionare!”.  Auto e barche velocissime, da cui tuffarsi nudi, e però la mattina in azienda, o a scrivere. Oppure magari al Quirinale (dove l’Avvocato dominava da una leggendaria terrazza ex Carandini-Albertini, più alta del presidente) o a palazzo Chigi a consegnare il nuovo modello della Ritmo o Regata o Tempra, modello “Mirafiori” o “Supermirafiori” magari prodotte al sud con grandi incentivi pubblici che avrebbero potuto fondare delle Silicon Valley (anche chiamate, all’estero: Fix It Again, Tony, per dire la non celebre affidabilità).

 

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Era però un tempo in cui le auto italiane, come delle debuttanti, venivano presentate a corte (stupenda photo opportunity, i più spiritosi come Montezemolo si infilavano nel bagagliaio), e tra le due corti, quella repubblicana e quella automobilistica, c’erano legami diretti: il casato era anche una riserva repubblicana in servizio permanente effettivo, con prestiti e scambi; Susanna Agnelli, la sorella che martirizzava gli italiani nella rubrica delle lettere su Oggi, di tanto in tanto faceva il sottosegretario o il ministro degli Esteri; Fidel Castro talvolta saltava da un party al Quirinale al palazzo di fronte; politici malvestiti erano invitati a colazione e bistrattati su quella terrazza.  L’Avvocato però era una specie di super garante all’estero; quando la situazione si faceva seria, alla trentesima crisi di governo, al centesimo scoppio di inflazione, al millesimo mancato default, lui telefonava e rassicurava. Tutto andava a posto (fino alla prossima crisi e al prossimo default).

 

Altri raccordi, altri legami: le Lancia Flaminia ancor oggi in uso per le parate del 2 giugno venivano giù da Torino direttamente, dal produttore al consumatore, lungo la neonata Autostrada del Sole, per prendere possesso del loro garage quirinalizio (molto lentamente, perché avevano delle marce modificate proprio per il passo da parata, e non erano in grado di correre). E sarà un segno, ma improvvisamente e inopinatamente, dopo la fusione con i francesi, è stato appena annunciato che il massimo marchio elitista della vecchia galassia Fiat, la compianta e defunta Lancia, data (da mò) per spacciata, rivivrà. Lo rivela la rivista Quattroruote, con gran sorpresa non solo per gli appassionati e i nostalgici, e i più antropologi vi vedono un ennesimo segnale: ecco la borghesia che torna. Le élite sono salve. E’ un segno dell’Avvocato dall’aldilà. Se il marchio delle berline con l’antenna telefonica che friniva nel vento, nei nostri anni Ottanta, è ritornata fuori così, all’improvviso, vorrà dire qualcosa. La borghesia, negli anni Ottanta, aveva infatti trovato il suo simbolo, un pianale europeo attorno a cui erano costruite tre macchine, la Thema (avvocati), la 164 (commercialisti), la Croma (questori), la Saab 9000 (architetti), in un’intesa europea trent’anni prima del whatever it takes.

 

Non era ancora l’epoca della station wagon. Vederne una al Quirinale, come quella con cui si aggira Draghi, sarebbe stato inconcepibile. Agnelli ne aveva alcune su misura, con tetto in midollino, ma la “giardinetta” era auto da diporto, da cazzeggio.  Eppure oggi la giardinetta è una grandissima conquista. Draghi coi suoi monopetti e l’atlantismo e la station pare infatti un miraggio: la fine di una parentesi, anni di brutti-sporchi-cattivi, di nuovi mostri, di Peroni e rutto libero.

 

Finito, adesso, il tempo dello straccionismo politico-istituzionale, e pure automobilistico, per cui la gara era a chi si presentasse con lo scassone più urfido: Renzi in Smart sgangherata; Letta (Enrico) con monovolume antico; grillini in taxi o autobus. Ma invece ci siamo: ritorno a tempi gloriosi in cui Carlo Azeglio Ciampi si faceva fare una incredibile Thema Limousine con interni in pelle rossa per la visita di Elisabetta II, che con l’Avvocato perdeva ogni remora e ogni etichetta.

 

L’abbiamo infatti capito, dopo i ravvedimenti operosi di questi giorni, che poi un populista è un élitista con la terza media, è un élitista che a me m’ha rovinato ‘a guera. E poi ci siamo stufati davvero degli incompetenti in ciabatte. Viva dunque il gessato, possibilmente anche la chevallière. L’élite, comunque (a ogni latitudine). Negli Stati Uniti Biden, un Tabacci americano, aristocrazia dell’aula parlamentare, Rolex al polso, tenta di salvare l’economia  e l’anima ma soprattutto l’immagine del grande paese,  rimettendo al loro posto i mostri venuti fuori da chissà dove, evocati da quell’altro rabdomante di spiriti maligni, ora golfista in Florida (che per la scelta del sarto e in generale dell’esistenza non pare aver mai consultato Capital). La riconciliazione borghese negli Stati Uniti avviene in versione inclusiva e progressista con poetesse civili in abiti Prada, mentre In Italia c’è un’altra estetica non progressista ma reazionaria in senso buono, con abito sartoriale, station, bracco ungherese e casale umbro; insomma il mood anni Ottanta Barilla di quando l’Italia tirava.

 

Ecco dunque il nuovo riflusso: Berlusconi, che dei trend è rabdomante e sciamano altro che i vichinghi del Campidoglio, l’ha capito prima di tutti, dunque sbarca in grande stile a Roma con volo in Gulfstream dalla Provenza, e posta foto da influencer consumato, sulla scaletta (ma a differenza degli influencer, qui l’aereo è suo).  E  grandi foto pure a villa Grande, concessa all’amico Zeffirelli e adesso rientrata nel cespite  sia nell’uso che nella nuda proprietà; e subito riaddobbata con incredibile stile Eighties da Liberace a Palm Springs, con giardini in costruzione, tipo pubblicità Paghera. E “qui verrà una grande piscina”, ha detto mostrando il giardino a Salvini, come ai tempi d’oro ad Arcore, ma senza tombe di Cascella. Ed è sicuramente la frase più politica di questa fase storica, questo “qui verrà una grande piscina”, altro che super ministero della transizione verde. Datelo a Berlusconi, ci pensa lui, che ha fatto le meglio transizioni verdi da Arcore a Milano 2 e 3. E tra giardini e siepi è stato ammansitore di animali politici since 1994: e qui sull’Appia, non più Bossi in canottiera, bensì il neo europeista e neo gentiluomo di campagna Salvini in giacca e cravatta (ex felpa). Per attirarlo, per normalizzarlo, ecco il genio dell’ufficio damascato con scrivania dorata e telefoni e addirittura bandiere (ma che ne sarà dell’affitto al duca Grazioli? De sti tempi, rimarrà sfitto).

 

E poi soprattutto il giardino (cosa c’è di più borghese ed elitario di una villa con giardino?). Ossessione agnellesca suprema, quella dei giardini, peraltro: ai tempi d’oro, distese di dalie rosse a Villar Perosa, antico feudo: lì il massimo paesaggista globale Russell Page disboscava sistematicamente ippocastani secolari e abeti storici e boschi centenari perché non in asse o non simmetrici o non tono-su-tono. Molte questioni e indecisioni anche su una piscina che doveva riflettere esattamente "i verdi e i grigi" delle montagne circostanti: Gae Aulenti (architetta anche quirinalizia) decretò che l'unica tinta possibile per una rifrazione esatta era l'arancio. E l’Avvocato, dall’elicottero, notò che era “una grande carota" (sottraendo, è chiaro, tutte queste energie a business plan e incontri confindustriali). Che nostalgia, però, che voglia di borghesia, possibilmente alta. Dopo un anno chiusi in casa, oltretutto, tra zoom e mutande, nelle facce di politici rifratte dal sotto in su, negli Skype di computer neanche Mac (mica come il Cav., che ce l’ha rosa).

 

La sbornia populista del resto ha convinto anche i più restii. Come quando stai col fidanzato proletario che ti porta in pizzeria e al mare col treno, e tu sopporti sopporti in nome di qualche ideale che poi naturalmente non si avvererà. Ma adesso basta, c’è voglia di lusso e voluttà. Di gessati su misura (se davvero saranno i roaring twenties, bisognerà avere qualcosa da mettersi). Ed estati in barca, sci su nevi svizzere. Ridateci Marella e Russell Page. E i cani husky (o bracchi ungheresi, va bene lo stesso). E chi non ci sta, può sempre andare su TikTok, oppure sulla sua versione semplificata, Rousseau.

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