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L'eredità di una grande mente

Effetto Caffè

Stefano Cingolani

La solitudine del riformista. Chi era il professore di Mario Draghi scomparso nel nulla nel 1987. Maestro e allievo, simili e diversi

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Il riformista è solo e deriso da tutti, “da chi prospetta future palingenesi, soprattutto per il fatto che queste sono vaghe, dai contorni indefiniti e si riassumono, generalmente, in una formula che non si sa bene cosa voglia dire, ma che ha il pregio di un magico effetto di richiamo”, ma anche da chi “lo considera un impenitente tappabuchi”. A questo s’aggiunge “lo scherno di chi pensa che ci sia ben poco da riformare, né ora né mai, in quanto a tutto provvede l’operare spontaneo del mercato, posto che lo si lasci agire senza inutili intralci”. In queste giornate intense e convulse Mario Draghi non può non pensare a quel dolente scritto del suo professore, Federico Caffè, pubblicato il 29 gennaio 1982 sul Manifesto, quotidiano al quale collaborava, e intitolato “La solitudine del riformista”; un bilancio del proprio percorso politico-intellettuale e un monito per chi volesse seguirlo nell’impervio cammino. Caffè era “un riformista radicale” come lo ha definito Giorgio Ruffolo che gli era amico, Draghi è un riformista moderato, ma il sentiero del cambiamento possibile resta comunque stretto e accidentato.

 

Quando all’alba di mercoledì 15 aprile 1987 Federico Caffè lasciò sul comodino accanto al letto gli occhiali da lettura, l’orologio e i documenti personali, per poi allontanarsi in silenzio dalla sua abitazione romana della Balduina (e forse dalla vita stessa), Draghi era direttore esecutivo della Banca mondiale in quel di Washington, dopo aver consigliato Giovanni Goria ministro del Tesoro democristiano nel governo Craxi e aver iniziato a insegnare all’Istituto Cesare Alfieri di Firenze. Anche Caffè, l’uomo che nel lontano 1970 cinse d’alloro la fronte di Draghi, aveva lavorato con un ministro, il social-laburista Meuccio Ruini subito dopo la Liberazione; anche lui aveva bagnato i panni nel mondo anglosassone (alla London School of Economics culla del welfare state); anche lui era entrato nell’officina intellettuale della Banca d’Italia dove viene forgiata la crème della classe dirigente; ma le differenze tra il maestro e il discepolo sono più delle somiglianze

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Caffè era piccolo di statura, con una grande mente e un cuore lacerato da intense sofferenze. Aveva maturato una profonda disillusione dopo una vita passata nell’ansia di cambiare la disciplina che lo aveva reso famoso e soprattutto la società la cui scala aveva salito dal gradino più basso e dalla quale si era allontanato all’età di 73 anni, provato da lutti e tristezze personali, depresso dal temuto esaurirsi della sua missione: l’insegnamento al quale aveva dedicato tutto generando, lui che era rimasto sempre scapolo, un migliaio di figli della sua intelligenza critica. Davvero molti ne ha laureati (come Ignazio Visco governatore della Banca d’Italia, Ezio Tarantelli, Nicola Acocella, Bruno Amoroso, Vieri Ceriani, Daniele Archibugi, Giuseppe Laterza). Molti altri gli sono stati vicini (tra loro Paolo Sylos Labini, Guido Rey, Pierluigi Ciocca, Enrico Giovannini, Fausto Vicarelli, Nino Galloni).


La tesi universitaria di Draghi possiamo definirla decisamente euroscettica. “Il succo era questo – ha ricordato egli stesso –: il Piano Werner (il primo progetto di unità monetaria europea, ndr.) è stato un fallimento perché le politiche economiche e le situazioni dei singoli paesi erano ancora troppo diverse per poter avere dei cambi fissi”. Una conclusione condivisa allora dai partiti di sinistra, ma anche da Guido Carli e dallo stesso Caffè, rimasto sempre critico sulla unificazione europea a cominciare da quella monetaria. Carli cambiò idea, lo stesso ha fatto Draghi tanto che non solo ha condiviso, ma salvato l’euro. Anche sui mercati finanziari, anzi sul ruolo della finanza in genere, la distanza è diventata enorme. Sulla macroeconomia e sulla moneta hanno lasciato un’impronta altri studiosi con i quali è entrato in contatto a Boston, da Franco Modigliani a Stanley Fischer. Sul welfare state il giudizio è diventato meno positivo con l’esplodere di quella che viene chiamata “la crisi fiscale dello stato” e con l’invecchiamento della popolazione.

 

Quanto al ruolo della tecnologia, la rivoluzione digitale pone questioni nuove e richiede soluzioni inedite. Restano, tuttavia, alcune convergenze importanti. Prendiamo, ad esempio, le tasse: il presidente del Consiglio incaricato ha detto chiaramente a Matteo Salvini che le imposte debbono restare progressive, quindi niente flat tax. L’uso produttivo della spesa pubblica, non solo in chiave anti-congiunturale (insomma quello che viene chiamato comunemente keynesismo), accomuna il professore e l’allievo, così come il sostegno all’innovazione imprenditoriale: Caffè apprezzava Joseph A. Schumpeter non meno di John M. Keynes. Ma, al di là della ricerca, per lo più futile, dei punti di contatto c’è una eredità di fondo dalla quale Draghi resta permeato.

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In un volume pubblicato nel 1962, raccogliendo le pagine a suo giudizio più interessanti degli economisti moderni, Caffè cita una frase pronunciata da Allyn Young nel 1927: “Una conoscenza che non abbia rapporto con nessun interesse umano, non è conoscenza”. A questo precetto ha uniformato la propria vita. Draghi vi ha aggiunto il motto di Luigi Einaudi: “Conoscere per deliberare”. Lo stesso Caffè, del resto, ha quanto meno aiutato a deliberare. Nato a Pescara da una famiglia di modeste condizioni economiche, si era laureato nel 1936 in Scienze economiche e commerciali seguendo gli insegnamenti di Gustavo Del Vecchio al quale le leggi antisemite avrebbero tolto la docenza. Nonostante fosse alto un metro e mezzo andò in guerra e indossò la divisa fino all’8 settembre. Si avvicinò a Giustizia e Libertà e soprattutto a Democrazia del Lavoro, il partito fondato da Ruini che nel 1945 lo portò al ministero per la Ricostruzione durante il governo Parri, come capo di gabinetto, con Del Vecchio consigliere economico. In quella veste prese parte anche ai complessi negoziati per far tornare l’Italia sconfitta e prostrata nel consesso delle nazioni, mentre il suo maestro diventava ministro del Tesoro.


Sulla scomparsa di Federico Caffè sono stati scritti volumi interi (come il romanzo di Ermanno Rea “L’ultima lezione”) e girati documentari. Sono stati evocati il caso Majorana, il suicidio di Primo Levi l’11 aprile 1987 (quattro giorni prima) che colpì molto l’anziano economista (“Perché così, sotto gli occhi di tutti?” si chiese angosciato), personaggi letterari come Mattia Pascal, Dissipatio H.G. (che sta per humani generis) il libro di Guido Morselli morto suicida nel 1973, che Caffè aveva letto e apprezzato. L’ultima lettera a Carlo Ruini, collega d’università e figlio di Meuccio, sebbene molto esplicita, non ha messo fine al mistero. Tanto che Bruno Amoroso, nel libro Considerazioni di un intruso, sostiene di averlo visto dopo la fuga, evocando così il ritiro in convento. “Sono disperato e non so cosa fare – confessava Caffè –. Non vorrei finire la mia vita con lo squallore di un suicidio. Ma vie d’uscita non ne vedo. Tieni per te quel che ti scrivo. La nostra amicizia è stata ed è tale che non potevo nasconderti questa lugubre realtà”. Emerge una persona tragicamente umiliata e sconfitta. “Io non sono un uomo, sono una testa. Se quella arrugginisce, di me non resta più niente”, aveva detto angosciato anche perché “le spese mediche dal settembre in poi (per le cure del fratello minore Alfonso, anche lui celibe e professore universitario ndr) hanno assorbito i risparmi destinati all’avanzata vecchiaia”.

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Fu proprio il fratello ad accorgersi della fuga e a informare innanzitutto gli amici, i quali cominciarono a cercarlo per tutta Roma. Chi perlustrò gli argini del Tevere, chi cercò nel quartiere attorno all’università, chi batté le strade di Monte Mario. Ma dove poteva andare debilitato com’era? Mangiava pochissimo e dormiva ancor meno, camminava lentamente, era colpito da frequenti amnesie. Un appello pubblicato sulla Repubblica cadde nel vuoto. Ha raccontato Daniele Archibugi, figlio di Franco del quale Caffè era stato testimone di nozze: “Alfonso mi chiamò alle 7 del mattino e mi disse che Vinicio, così lo chiamavano in famiglia, era scappato di casa. Raggiunsi l’appartamento dove trovai i suoi nipoti e l’allievo Nicola Acocella che si era preso cura di lui. Da tre mesi era in preda a una profonda crisi depressiva e non andava più in facoltà da quando, raggiunti i limiti di età, aveva smesso di insegnare”. E proprio questa, al termine di una successione di lutti tra i quali la morte della vecchia madre e della amatissima governante, fu l’ultima goccia.

 

La caduta era cominciata nel 1985, l’anno in cui lo avevo intervistato nella sua stanzetta universitaria. Era febbraio e la Corte costituzionale aveva aperto la porta al referendum promosso da Democrazia proletaria e sostenuto dal Partito comunista non senza laceranti discussioni interne, e dopo un anno di battaglia parlamentare contro il taglio della scala mobile deciso dal governo Craxi. Dovevo raccogliere opinioni autorevoli da pubblicare sull’Unità e non tutte allineate. Molti economisti di sinistra, anche di area, come Claudio Napoleoni e Luigi Spaventa, criticavano il meccanismo, Franco Modigliani e Tommaso Padoa Schioppa ne avevano confutato con sapienza teorica il difetto di fondo: rilanciare l’inflazione come una palla di biliardo. Caffè, che non era comunista, difendeva la scala mobile; non negava gli effetti perversi, ma voleva mettere sotto controllo i prezzi amministrati, anziché fermare la dinamica dei salari. Dietro la sua convinzione agiva un “imperativo sociale” che non poteva mai essere disgiunto da quello economico. Mi colpirono la morale ferrea e la logica inflessibile espresse con parole soavi e un linguaggio misurato, forbito, quasi arcaico. 

 

Poco dopo, il 27 marzo, le Brigate rosse uccisero Ezio Tarantelli, uno degli allievi più amati da Caffè anche se era su posizioni diverse, consigliava il leader della Cisl Pierre Carniti e cercava di convincere il Pci per il quale votava, anche attraverso il giornale del partito. Fu un dolore indicibile. Il referendum il 10 giugno segnò una débacle storica per i comunisti e per il solitario riformista che si vedeva ridotto a “qualcosa di simile a quello che si chiede a un pappagallo tenuto in gabbia, dal quale, con la guida di una bacchetta, si cerca di ottenere che scelga, con il suo becco, uno dei variopinti manifestini che si trovano in un apposito ripiano della gabbia”.  Così lui, “spaventato da questa implicita trasformazione in intellettuale pappagallesco”, lentamente si è ritratto fino a scomparire.

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