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Arrivano i tecnocrati

Federico Boffa e Giacomo A. M. Ponzetto*

Cosa accomuna e cosa distingue il governo Draghi da quelli di Ciampi, Dini e Monti

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L’Italia si avvia al quarto governo tecnico in tre decenni. Come già Ciampi, Dini e Monti, anche Draghi è chiamato a gestire un momento di grave difficoltà. Ma la crisi attuale è ben diversa dalle precedenti, e quindi anche il governo Draghi potrà differenziarsi dai tecnocrati che l’hanno preceduto. Questi ultimi affrontarono emergenze di bilancio, che richiesero politiche di austerità e riduzione del deficit. Non a caso i governi Dini e Monti attuarono due dei passi principali della riforma pensionistica che ha corretto gli squilibri storici del nostro sistema previdenziale. Né è casuale che quei governi abbiano goduto di scarso consenso: l’opinione pubblica tende a punire chi adotta politiche di austerità. Il meccanismo è facilmente comprensibile. I costi dell’austerità sono chiari e immediati. I suoi benefici, benché maggiori, sono diluiti nel tempo e meno leggibili. Gli italiani tendono a sottostimare le conseguenze di un default, di cui non abbiamo esperienza diretta; e a sottovalutare il bisogno di austerità, non cogliendo precisamente il rischio di tenuta dei conti pubblici. L’impopolarità dei governi tecnici si è rivelata un grave problema: per ovvie ragioni di legittimità democratica; ma anche perché i cittadini, esausti dall’accoppiata di austerità gravosa e rappresentanza insufficiente, finiscono per rigettare i tecnocrati e premiare proposte politiche populiste.  

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L’Italia si avvia al quarto governo tecnico in tre decenni. Come già Ciampi, Dini e Monti, anche Draghi è chiamato a gestire un momento di grave difficoltà. Ma la crisi attuale è ben diversa dalle precedenti, e quindi anche il governo Draghi potrà differenziarsi dai tecnocrati che l’hanno preceduto. Questi ultimi affrontarono emergenze di bilancio, che richiesero politiche di austerità e riduzione del deficit. Non a caso i governi Dini e Monti attuarono due dei passi principali della riforma pensionistica che ha corretto gli squilibri storici del nostro sistema previdenziale. Né è casuale che quei governi abbiano goduto di scarso consenso: l’opinione pubblica tende a punire chi adotta politiche di austerità. Il meccanismo è facilmente comprensibile. I costi dell’austerità sono chiari e immediati. I suoi benefici, benché maggiori, sono diluiti nel tempo e meno leggibili. Gli italiani tendono a sottostimare le conseguenze di un default, di cui non abbiamo esperienza diretta; e a sottovalutare il bisogno di austerità, non cogliendo precisamente il rischio di tenuta dei conti pubblici. L’impopolarità dei governi tecnici si è rivelata un grave problema: per ovvie ragioni di legittimità democratica; ma anche perché i cittadini, esausti dall’accoppiata di austerità gravosa e rappresentanza insufficiente, finiscono per rigettare i tecnocrati e premiare proposte politiche populiste.  

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Draghi agirà però in circostanze diverse, che potrebbero consentirgli di riscuotere maggiori consensi. La ripresa dopo la pandemia esigerà una fase transitoria di politiche espansive, con investimenti finanziati dal Recovery Fund, dal Mes e da una maggiore disponibilità di fondi strutturali. Opportunità inedita per la tecnocrazia. Con un’accurata scelta dei ministri, il governo Draghi potrebbe dimostrare la propria competenza con l’efficacia e efficienza di un’azione di governo i cui obiettivi gli italiani comprendono e condividono. Con due risultati cruciali: evitare gli sprechi di risorse pubbliche; e riconciliare i cittadini con i benefici dell’esperienza e abilità tecnica, convincendoli a premiarle nelle scelte elettorali successive. Questa strada potrebbe rivelarsi obbligata, se il Parlamento manterrà il ruolo che gli spetta di dirigere le linee politiche, lasciando ai tecnocrati un ruolo strettamente esecutivo. Se invece a Draghi saranno delegate anche le scelte politiche, potrebbe optare per guidare un governo tecnico più tradizionale: incaricato di prendere le decisioni che occorrono, ma per cui i partiti non sanno costruire un consenso. Ma pur sempre con una novità fondamentale: l’inedita disponibilità di risorse potrebbe consentirgli un nuovo “whatever it takes” per riportare l’Italia alla crescita economica, grazie a riforme strutturali che favoriscano imprenditorialità e concorrenza. Riforme ancora una volta difficili da realizzare e impopolari. Aprendo al mercato, intaccherebbero le posizioni consolidate di persone e categorie privilegiate, oggi sottratte ai principi della concorrenza e del merito. Perdere queste rendite di posizione sarebbe per loro un costo evidente e immediato. Mentre i benefici sarebbero di nuovo differiti e meno facilmente attribuibili alle riforme. Sarebbero però tangibili e diffusi. Il ritorno della crescita non varrebbe forse a Draghi la gratitudine degli italiani; ma è imprescindibile per risolvere i problemi economici e sociali che alimentano anche il malessere politico della nostra democrazia.

 

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Resta una trappola da evitare: l’austerità, che Ciampi, Dini e Monti, sull’orlo dell’abisso, dovettero praticare; ma che Draghi può rifiutarsi di imitare ora che l’abisso è un po’ più in là. Aumentare le tasse ora soffocherebbe la ripresa. Anche ridurre la spesa, di cui invece occorre la rimodulazione, potrebbe essere controproducente nelle circostanze attuali. Peggio ancora, un programma tecnocratico basato su una rinnovata e prematura austerità potrebbe esasperare ulteriormente i cittadini e esacerbarne la deriva populista. La politica, chiamando Draghi, ha abdicato almeno in parte al proprio ruolo. Meglio però chiamarlo ora, quando ancora può evitare che si crei quel “cattivo debito” di cui egli stesso parlava in estate. L’alternativa poteva essere il ripetersi dell’operazione Monti: cioè doverlo poi chiamare per salvarci con misure draconiane dal precipizio che quel cattivo debito aveva ormai creato, con le conseguenze funeste che ciò comporterebbe.
 

 

*Federico Boffa, economista Libera Università di Bolzano
Giacomo A. M. Ponzetto, economista, CREI e Università Pompeu Fabra, Barcellona

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