PUBBLICITÁ

Innovazione da Recovery

Stefano Firpo

Un’occasione persa, o quasi. Il Piano italiano di ripresa e resilienza prevede di assorbire circa 70 miliardi su modernizzazione e digitale, ma mancano impegni forti e programmi precisi su riforme e investimenti

PUBBLICITÁ

La revisione dei contenuti del Recovery plan italiano (Pnrr) e la struttura di governance che dovrà vigilare sulla sua implementazione sono fra i punti di merito su cui sta provando ad articolarsi un nuovo patto di legislatura. Sembra dunque il momento giusto per suggerire modifiche alla bozza di Pnrr finora circolata e non ancora presentata alla Commissione europea. Qui si prova a farlo su un capitolo decisivo: quello degli interventi per attivare innovazione e digitalizzazione quali leve su cui far crescere l’Italia.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


La revisione dei contenuti del Recovery plan italiano (Pnrr) e la struttura di governance che dovrà vigilare sulla sua implementazione sono fra i punti di merito su cui sta provando ad articolarsi un nuovo patto di legislatura. Sembra dunque il momento giusto per suggerire modifiche alla bozza di Pnrr finora circolata e non ancora presentata alla Commissione europea. Qui si prova a farlo su un capitolo decisivo: quello degli interventi per attivare innovazione e digitalizzazione quali leve su cui far crescere l’Italia.

PUBBLICITÁ

 

Il Pnrr, nella sua attuale versione, ha il merito di dedicare molte risorse al tema dell’innovazione e del digitale. Questo merito purtroppo finisce esattamente dove comincia. Non vi si trova delineato un quadro coerente di investimenti pubblici coadiuvato da un altrettanto coerente piano di riforme per abilitare e favorire gli investimenti privati in quest’area. Il piano si sostanzia in un insieme di numerose voci di spesa con qualche sparuto riferimento a interventi sul quadro regolatorio. Il rischio così è di produrre tanta spesa ma magri risultati, alimentando solo il nostro debito senza produrre crescita.
Quarantacinque miliardi di risorse del Pnrr sono assorbite dalla prima missione del piano (ce ne sono 6 in totale), specificatamente dedicata al tema dell’innovazione e del digitale per rafforzare la nostra competitività. Altri 25 mld sono dedicati alla quarta missione, concentrata su istruzione e ricerca con evidenti punti di contatto con la precedente. L’envelope complessiva su questi temi raggiunge e supera la cifra di 70 mld: quasi 1/3 delle risorse che il Pnrr intende mobilitare. 

 

PUBBLICITÁ

Nessun governo nella storia repubblicana ha potuto contare su disponibilità così ingenti per intervenire su di un fronte su cui peraltro negli ultimi 20 anni la finanza pubblica ha investito poco, proprio mentre la trasformazione tecnologica e digitale subiva una impetuosa accelerazione lasciando molte nostre imprese e la nostra Pubblica amministrazione (Pa) in forte ritardo. Ma veniamo ai diversi capitoli di spesa. 
Il primo ambito di intervento riguarda la digitalizzazione della Pa dove sono previsti investimenti pari a 8 mld per razionalizzare e mettere in sicurezza i sistemi informatici e investire nelle competenze digitali. Si menzionano anche “interventi di carattere ordinamentale a costo zero, volti a definire una cornice normativa abilitante al cambiamento” (pag. 48) tesi a semplificare i processi decisionali, a partire dalla digitalizzazione della Giustizia. Propositi che lasciano il lettore tanto incuriosito quanto frustrato dall’assenza di ogni dettaglio, fatto salvo un impegno al “censimento delle procedure, propedeutico alla modifica, sul piano normativo, della reingegnerizzazione, in chiave digitale, della disciplina dei procedimenti medesimi” (pag. 57). Insomma, di riforme si vedrà se, come e quando.

 

Lascia perplessi l’idea di costituire un “cloud storage nazionale” che offra servizi cloud alla Pa. Se per alcune applicazioni critiche per la Pa può aver senso usare infrastrutture proprie, per molte altre è molto più consigliabile usare i servizi di mercato. Peraltro, per poter sfruttare i benefici del cloud computing occorrerebbe razionalizzare molti applicativi, su cui invece nulla è detto nel piano. Infine, sul tema altrettanto cruciale dell’interoperabilità dei dati per abilitare la condivisione delle informazioni nella Pa si rimane ai buoni propositi, nulla essendo detto in merito a decisivi aspetti di governance nel rapporto centro-regioni ed enti locali, alle scelte di carattere architetturale e riorganizzativo necessarie.

 

Si menzionano poi interventi su identità digitale, pagamenti digitali nella Pa, anagrafe nazionale delle persone residenti, senza citare come si intenda accelerare la messa a terra di strumenti esistenti come (Spid, Io, PagoPa) su cui da anni si accumulano ritardi che ancora oggi impediscono ai cittadini di ottenere una carta di identità digitale o di evitare lunghe code per semplici certificati anagrafici. E si evita di andare al nocciolo della questione, ovvero l’eliminazione dei tanti adempimenti inutili o ridondanti, senza concentrare l’azione sulla creazione di veri servizi integrati per i cittadini e facilitare l’accesso alla scuola, alla sanità, al mercato del lavoro. Sul tema delle competenze digitali, dopo un intermezzo di propositi di nuove assunzioni (su cui la Commissione avrà una attenzione particolare) e di assai vaghi intendimenti di revisione delle regole di valutazione della performance e valorizzazione delle competenze nella Pa, si giunge alla sconcertante proposta di costituire le “case della cultura digitale, dove verranno attivati corsi di formazione, sperimentazione e orientamento, indispensabili per rafforzare le capacità dei cittadini e delle imprese di utilizzare le tecnologie informatiche” (pag. 54). Un’idea davvero poco digitale dal farsesco sapore totalitario.

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

Veniamo agli interventi per accelerare invece la trasformazione digitale delle imprese. Anche qui l’esercizio è deludente, non facendo altro che riproporre il Piano industria 4.0 ora ridenominato Transizione 4.0, o il vecchio piano di supporto all’internazionalizzazione delle imprese. Si prevede dunque di potenziare – come peraltro già fatto nella legge di Bilancio appena varata con uno stanziamento di ben 24 mld – i crediti di imposta su ricerca, innovazione e beni strumentali 4.0. Vi sono inclusi anche le agevolazioni su investimenti in beni strumentali ordinari (il vecchio superammortamento) che col digitale hanno poco a che fare e su cui la Commissione avrà molto da ridire in merito alla correttezza del loro inserimento nelle misure finanziabili con le risorse di NextGenEu.

 

PUBBLICITÁ

Non è sbagliato riproporre e potenziare una misura che si è dimostrata efficace come il Piano 4.0. Tuttavia poteva, come detto, essere meglio circoscritta e soprattutto poteva essere corredata da ulteriori interventi volti ad aiutare le imprese a investire, nelle condizioni così incerte come quelle attuali. Su aggregazioni, incentivi al reshoring, norme a favore della ripatrimonializzazione delle imprese, oggi pesantemente indebitate per far fronte agli ammanchi di liquidità e ai buchi di fatturato derivanti dalle misure di lockdown, non vi è nulla, non un guizzo o un’idea nuova. Nei cassetti dei ministeri quello c’era e quello è stato considerato sufficiente. Una politica industriale fatta di uno svuota-cassetti più che tesa ad aprire qualche cassetto dei sogni temo non aiuterà a colmare i nostri gap competitivi. Solo in fondo al capitolo sulla prima missione appare invece un solitario, bizzarro guizzo: uno stanziamento da 750 milioni a favore di investimenti nei microprocessori (piuttosto inutile considerando la scala di investimento necessaria per entrare in questo settore da cui l’intera Europa è uscita anni fa) che dà la sensazione che nel Pnrr possano entrare cose del tutto ultronee come le marchette in una legge di Bilancio.

 

Un’altra occasione persa è quella degli strumenti a favore della ricerca industriale e del trasferimento tecnologico che troviamo descritta nella seconda componente del capitolo sulla missione 4 denominata “dalla ricerca all’impresa”. Vi si dedicano ben 12 mld. Da una parte si intende rifinanziare per oltre 7 mld molti strumenti esistenti a supporto della ricerca industriale: gli Ipcei (su quali filiere strategiche?), gli accordi per l’innovazione del Mise, i nuovi Prin, il fondo sul Pnr del Mur. Come se il piano e le sue risorse fossero l’occasione per un una legge di Bilancio straordinaria, a cui attingere per continuare a fare quello che più o meno si sarebbe comunque fatto e soprattutto nel modo in cui lo si è sempre fatto. Nessuna idea su come riformare, modernizzare e orientare questi strumenti viene espressa.

 

Dall’altro lato si intende introdurre “ecosistemi dell’innovazione” attorno a “sistemi territoriali” di R&S, “ovvero una rete di istituti di ricerca applicata sparsi (sic!) in tutto il territorio italiano”. Non basta, vengono anche ”contemplati investimenti per il potenziamento di strutture di ricerca e la creazione di “reti nazionali” di R&S su alcune tecnologie abilitanti (pag. 128). Non si capisce se si tratti di potenziare realtà esistenti o di crearne di nuove. Dopo la creazione dell’IIt, dell’Human Tecnopole, di EneaTech, del Fondo nazionale per l’Innovazione, degli annunciati centri su Intelligenza artificiale a automotive a Torino, cosa vogliamo aggiungere?

 

Ora, in un paese con circa 300 centri di trasferimento tecnologico e circa 200 acceleratori/incubatori censiti dal Mise, che ha visto la recente costituzione di otto Competence center nazionali ed è impegnato proprio in questo periodo a rispondere a una gara europea per assegnare all’Italia ingenti risorse per la costruzione di una ventina di digital innovation hubs da connettere alle reti europee, ci si domanda come gli estensori del Pnrr abbiano trovato il bisogno di proporre nuove strutture in questo campo. L’ovvio suggerimento è di andare in direzione opposta con un deciso intervento di riordino, di razionalizzazione per fare massa critica e disboscare la foresta polverizzata di centri di TT di cui è stata favorita la moltiplicazione ad ogni livello istituzionale e in ogni possibile territorio, con enorme dispendio di risorse e modestissimi risultati. 

 

Veniamo infine ai necessari investimenti e alle necessarie riforme per migliorare e potenziare le nostre infrastrutture di connettività rivelatesi di importanza strategica col deflagrare della pandemia. Il Pnrr intende rifinanziare il Piano Banda Ultra larga (Bul) assicurando a famiglie e imprese una connettività a 100 Mbps e sviluppando anche la rete 5G. 
Per accelerare gli investimenti privati nelle reti di nuova generazione non basta lavorare agli incentivi e potenziare il Piano Bul. Occorre accompagnare questo sforzo con importanti interventi sull’assetto regolatorio e normativo utili a un più celere deployment degli investimenti. Come ad esempio rendere pienamente operativo e fruibile il catasto delle infrastrutture fisiche di rete per dare piena informazione sul posizionamento delle stesse evitando inutili duplicazioni e agevolando – laddove possibile – la condivisione delle infrastrutture. Oppure riducendo i costi e velocizzando i tempi per ottenere i permessi agli scavi nei comuni che oggi rallentano lo sviluppo dei lavori e spesso moltiplicano il contenzioso. 

 

Un intervento riformatore sarebbe infine quello di mettere mano ai livelli di inquinamento elettromagnetico – mai citato nel Pnrr – portandoli a livelli che permettano lo sviluppo del 5G senza compromettere in alcun modo la salute come già avviene in tutta Europa. Oggi i limiti italiani di tolleranza all’esposizione elettromagnetica sono 100 volte più cautelativi rispetto a quelli stabiliti come non pericolosi a livello internazionale e adottati come riferimento dalla legislazione di ben 20 paesi europei. 

 

Senza la rimozione di queste barriere all’investimento nemmeno i denari del Pnrr saranno sufficienti a farci progredire sulla banda ultra-larga e le reti mobili. In conclusione, su innovazione e digitale, il Pnrr prevede di assorbire oltre 70 miliardi di euro ma perde l’occasione storica di varare un grande progetto di investimenti e di riforme. Su questo capitolo la Recovery and Resilience Facility, tradotta nel Pnrr italiano, rischia di venir utilizzata come un fondo a cui attingere come se si trattasse di varare una legge finanziaria senza particolari vincoli di bilancio e senza alcun intervento riformatore del quadro ordinamentale. Se dal Pnrr si vuole produrre crescita e recuperare produttività occorre rimetterci le mani subito prendendo impegni forti su riforme e investimenti.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ