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Editoriali

Un Recovery plan contro il declino

Redazione

Fare debito, ma per cosa? Il Next Generation Eu è una grande opportunità per il paese, ma non è un jackpot della lotteria. Per risolvere i problemi strutturali servono riforme

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Il Consiglio dei ministri ha approvato l’ennesimo scostamento di bilancio per il quinto decreto “Ristori”. Con un piccolo giallo: l’operazione, inizialmente quantificata in 20 miliardi, è improvvisamente lievitata a 32 miliardi. La differenza servirà a finanziare più generosi strumenti di sostegno alle categorie colpite dai lockdown, ma anche un’ulteriore proroga delle scadenze fiscali e forse una mini rottamazione delle cartelle. Qualcuno sostiene che l’obiettivo sia anche alimentare spese già previste nella legge di Bilancio, quali gli incentivi di Impresa 4.0, oppure la riforma fiscale. Questo passaggio non può essere derubricato a questione puramente tecnica. E’ ovvio che la recessione richieda interventi muscolari a favore delle imprese e dei lavoratori. E’ altrettanto ovvio che gran parte delle misure per il “dopo” saranno alimentate da nuova spesa pubblica. Quello che non è ovvio è che i temi della finanza pubblica – dall’immenso macigno del debito alla necessità di tornare, nel medio termine, entro la carreggiata del Patto di stabilità e crescita temporaneamente sospeso – siano stati oggetto di una sorta di rimozione collettiva.

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Il Consiglio dei ministri ha approvato l’ennesimo scostamento di bilancio per il quinto decreto “Ristori”. Con un piccolo giallo: l’operazione, inizialmente quantificata in 20 miliardi, è improvvisamente lievitata a 32 miliardi. La differenza servirà a finanziare più generosi strumenti di sostegno alle categorie colpite dai lockdown, ma anche un’ulteriore proroga delle scadenze fiscali e forse una mini rottamazione delle cartelle. Qualcuno sostiene che l’obiettivo sia anche alimentare spese già previste nella legge di Bilancio, quali gli incentivi di Impresa 4.0, oppure la riforma fiscale. Questo passaggio non può essere derubricato a questione puramente tecnica. E’ ovvio che la recessione richieda interventi muscolari a favore delle imprese e dei lavoratori. E’ altrettanto ovvio che gran parte delle misure per il “dopo” saranno alimentate da nuova spesa pubblica. Quello che non è ovvio è che i temi della finanza pubblica – dall’immenso macigno del debito alla necessità di tornare, nel medio termine, entro la carreggiata del Patto di stabilità e crescita temporaneamente sospeso – siano stati oggetto di una sorta di rimozione collettiva.

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La politica italiana vive una fase in cui non sembrano esserci più vincoli di bilancio e dà la sensazione di volerne approfittare. La precaria situazione dell’esecutivo, alla caccia di senatori responsabili, non fa che amplificare questa condizione: in fondo, per attirare “costruttori” non esiste modo migliore che dargli paletta e secchiello allargando i cordoni della borsa. Purtroppo, i vincoli che oggi non si vedono domani torneranno a mordere: l’eccezionalità del momento non dovrebbe essere dimenticata.

 

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Bruxelles ha congelato il tetto al deficit, i piani di rientro dal debito e il divieto di aiuti di stato con il cosiddetto temporary framework (“temporary”, qualora a qualcuno fosse sfuggito, vuol dire esattamente temporaneo). Ma, col progredire della campagna vaccinale, la normalità potrebbe rovesciarsi su una classe politica che sta vivendo la pandemia come una vacanza a Disneyland. Ciò non vuol dire fare austerità ora, sarebbe un errore, ma che è necessario usare bene lo spazio fiscale e il tempo che ci sono concessi: come nella parabola dei talenti, sarà bene aver messo a frutto, non sperperato, il gruzzolo che ci è stato messo in mano. E’ un principio che dovrebbe valere in generale per la spesa e gli investimenti pubblici, ma a maggior ragione in questa crisi da cui usciremo con un debito pubblico superiore al 160 per cento del pil.

 

Questo ci porta all’altro elemento rimosso dalla politica italiana: le riforme. Tanto se ne parla in astratto, quanto poco ci si ragiona in concreto. Le riforme non sono solo la contropartita che la Commissione europea ci chiede di mettere in campo per accedere ai fondi. Sono anche il lievito necessario a massimizzare gli effetti pro crescita degli investimenti pubblici e privati. Per esempio, nel Piano nazionale di ripresa e resilienza approvato il 12 gennaio alla vigilia della crisi politica, la parola “concorrenza” compare solo tre volte in 160 pagine: una in relazione alla banda larga, una in merito alla competizione dei porti italiani con quelli del Nord Africa. La terza e più importante è questa: “Quanto alla promozione della concorrenza, il Piano sostiene la transizione digitale e l’innovazione del sistema produttivo”, per esempio attraverso “stimoli agli investimenti in tecnologie all’avanguardia e 4.0, ricerca, sviluppo e innovazione” e via cantando. Otto righe in tutto. Un po’ poco, se si considera che la concorrenza è uno dei tasti dolenti sempre richiamati dalla Commissione nelle sue raccomandazioni. E, soprattutto, che è una potente leva di sviluppo per il nostro paese: lo hanno dimostrato, da ultimi, tre economisti della Banca d’Italia (Emanuela Ciapanna, Sauro Mocetti e Alessandro Notarpietro). La piena liberalizzazione dei servizi avrebbe fatto crescere la produttività totale dei fattori del 4,3 per cento, con effetti tangibili su occupazione e pil. Il Next Generation Eu è una grande opportunità per il paese, ma non è un jackpot della lotteria: è uno strumento per risolvere problemi. Se il governo non si sforza di comprendere le cause profonde e strutturali del declino italiano, non esiste quantità di denaro sufficiente a curarne gli effetti.

 

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