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L'occasione da non mancare

Cinque idee per un Recovery della pubblica amministrazione  

Marcella Panucci

Produttività, personale, riqualificazione, competenze, organizzazione. Mettersi al lavoro per non sprecare la carta europea

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Germania, Italia e Francia sono nell’ordine il primo, il secondo e il terzo paese manifatturiero nonché le maggiori economie dell’Unione europea. E, tuttavia, l’Italia negli ultimi decenni ha registrato tassi di crescita molto diversi dagli altri due paesi, accumulando tra 1991 e 2021 una distanza di 29 punti percentuali di pil dalla Germania e 37 dalla Francia. Cosa distingue allora questi paesi dall’Italia e perché, nonostante le similitudini in termini di struttura industriale ed economica, gli effetti sulla crescita sono così diversi? Sicuramente hanno pesato negli anni la debole dinamica della produttività e il calo degli investimenti pubblici in Italia. Ma anche la diversa efficienza del settore pubblico, peraltro in Italia con molte disomogeneità territoriali. Politiche pubbliche e beni e servizi pubblici prodotti dalla PA costituiscono l’infrastruttura portante del sistema economico e sociale. Più questa è solida ed efficiente, tanto maggiore sarà il dinamismo economico e sociale. Le politiche pubbliche vanno però disegnate, attuate, monitorate, valutate e, se necessario, corrette. E’ un ciclo che per ogni fase richiede specifiche competenze. Nel disegnare le politiche vanno ascoltati i loro destinatari: territori, attori sociali, chi dovrà applicarle. Nell’attuarle servono capacità gestionali e di project management. Nel valutarle – così come nel correggerle – occorrono competenze economiche, finanziarie, statistiche, sociologiche, giuridiche. Un discorso analogo vale per l’erogazione dei beni e servizi pubblici, dalla sicurezza sociale, alla scuola, alla sanità, alla giustizia, ai procedimenti autorizzativi richiesti per qualsiasi attività economica. E per i processi di approvvigionamento. Proprio perché la PA è il maggiore acquirente – ma anche un grande erogatore – di beni e servizi, si potrebbe dire un market maker, deve essere ancora più efficiente dei privati. Oggi invece accade esattamente il contrario. Per una varietà di ragioni, molte delle quali riconducibili a carenze organizzative e alla qualità del capitale umano.

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Germania, Italia e Francia sono nell’ordine il primo, il secondo e il terzo paese manifatturiero nonché le maggiori economie dell’Unione europea. E, tuttavia, l’Italia negli ultimi decenni ha registrato tassi di crescita molto diversi dagli altri due paesi, accumulando tra 1991 e 2021 una distanza di 29 punti percentuali di pil dalla Germania e 37 dalla Francia. Cosa distingue allora questi paesi dall’Italia e perché, nonostante le similitudini in termini di struttura industriale ed economica, gli effetti sulla crescita sono così diversi? Sicuramente hanno pesato negli anni la debole dinamica della produttività e il calo degli investimenti pubblici in Italia. Ma anche la diversa efficienza del settore pubblico, peraltro in Italia con molte disomogeneità territoriali. Politiche pubbliche e beni e servizi pubblici prodotti dalla PA costituiscono l’infrastruttura portante del sistema economico e sociale. Più questa è solida ed efficiente, tanto maggiore sarà il dinamismo economico e sociale. Le politiche pubbliche vanno però disegnate, attuate, monitorate, valutate e, se necessario, corrette. E’ un ciclo che per ogni fase richiede specifiche competenze. Nel disegnare le politiche vanno ascoltati i loro destinatari: territori, attori sociali, chi dovrà applicarle. Nell’attuarle servono capacità gestionali e di project management. Nel valutarle – così come nel correggerle – occorrono competenze economiche, finanziarie, statistiche, sociologiche, giuridiche. Un discorso analogo vale per l’erogazione dei beni e servizi pubblici, dalla sicurezza sociale, alla scuola, alla sanità, alla giustizia, ai procedimenti autorizzativi richiesti per qualsiasi attività economica. E per i processi di approvvigionamento. Proprio perché la PA è il maggiore acquirente – ma anche un grande erogatore – di beni e servizi, si potrebbe dire un market maker, deve essere ancora più efficiente dei privati. Oggi invece accade esattamente il contrario. Per una varietà di ragioni, molte delle quali riconducibili a carenze organizzative e alla qualità del capitale umano.

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E’ di qualche giorno fa l’allarme lanciato dal Financial Times sul rischio che, a causa dei colli di bottiglia amministrativi, Italia e Spagna, i due principali beneficiari del Recovery Plan, non siano in grado di spendere le imponenti risorse loro destinate. Un timore espresso più volte dallo stesso Commissario agli Affari Economici e Monetari, Paolo Gentiloni, che nelle sue recenti interviste ha invocato interventi straordinari di semplificazione per assicurare che i progetti del PNRR vengano realizzati nei tempi previsti. Per l’Italia si tratta di una sfida senza precedenti, ma anche di un’occasione unica per riorganizzare la Pubblica Amministrazione, sperimentando modelli, competenze e procedure che potrebbero costituire la spina dorsale di un moderno paradigma amministrativo. Fino a oggi però il tema della riorganizzazione della PA, salvo rare eccezioni, è stato affrontato esclusivamente da un punto di vista normativo e procedurale. Non si contano le riforme, le modifiche delle norme sui procedimenti amministrativi, i tentativi di semplificazione. E, tuttavia, gli effetti sulla durata dei procedimenti e, più in generale, sulla qualità dell’azione amministrativa sono stati scarsamente percepibili. Anche perché, mentre con una mano si semplificava, con l’altra si introducevano nuovi vincoli e oneri, sia per l’ampliamento nel corso degli anni del catalogo dei diritti tutelati - l’ambiente, il paesaggio - sia per la altrettanto condivisibile esigenza di prevenire illegalità e corruzione. L’obiettivo, in particolare nel secondo caso, era ridurre al massimo la discrezionalità dei funzionari pubblici, nella convinzione, peraltro non completamente errata, che una standardizzazione delle procedure e la previsione di automatismi consentisse di contenere possibili malversazioni. In questo modo però si è preferito prendere il toro per la coda, limitando la discrezionalità, salvo poi riconoscerla ai sempre più numerosi commissari straordinari nominati per superare vincoli e conseguenti blocchi amministrativi, e non per le corna, creando le condizioni perché i funzionari pubblici possano esercitarla in maniera competente, corretta ed efficace.

 

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Questa volta bisogna invece agire per il verso giusto, partendo dall’organizzazione e dalle persone. Soprattutto perché per un periodo, che non sarà breve, lo stato continuerà a espandersi per far fronte all’emergenza e agli effetti della crisi e per porre le condizioni con il PNRR per una ripartenza. Nel 2018 l’età media dei dipendenti pubblici in Italia era superiore ai 50 anni, sette anni in più rispetto al 2001. Secondo l’OCSE nel 2017 in Italia i dipendenti pubblici over 55 rappresentavano il 45% del totale, a fronte del 24% in Francia e del 20%, mentre i più giovani (età 18-34 anni) in Italia erano poco più del 2%, a fronte del 21% in Francia e del 30% in Germania. L’età ha evidentemente un impatto sulle competenze, a partire da quelle linguistiche e digitali, sulla capacità di adattamento rispetto alle trasformazioni esterne, sulla mobilità tra amministrazioni e territoriale. A questo dato si associano considerazioni relative alle qualifiche presenti nella PA italiana: pochi laureati e principalmente in materie giuridiche. Una situazione riconducibile al blocco del turnover che, unitamente ai vincoli di finanza pubblica, ha impedito un ricambio generazionale e un upgrade delle competenze. E’ quindi positiva l’intenzione del governo di procedere a immissioni di personale attraverso concorsi pubblici. Un’occasione importante. Per non sprecarla occorre affrontare questo processo da un punto di vista non solo e non tanto quantitativo, ma soprattutto qualitativo. Ecco allora cinque proposte su cui riflettere.



La prima riguarda la definizione delle competenze. Tradizionalmente le amministrazioni pubbliche tendono a replicare le competenze di cui avevano bisogno in passato, ma non a preparare quelle per il futuro. A settembre 2017 l’Ocse ha evidenziato la necessità che i pubblici funzionari affianchino alle competenze tecnico-specialistiche (legali, regolamentari, economiche, scientifiche, statistiche, ambientali), competenze strategiche (project management, gestione delle risorse umane ed economico-finanziarie, capacità relazionali, di negoziazione e di consultare gli stakeholder) e innovative (capacità di ridisegnare i processi, competenze digitali e di utilizzo dei dati). E’ questa la direzione da seguire se si vogliono avere persone preparate a gestire non solo dossier tecnici, ma anche progetti di investimento, risorse umane ed economiche. La seconda attiene alla selezione e al reclutamento del personale. Il settore pubblico compete con il settore privato nell’attrazione delle migliori competenze, ma è soggetto a stringenti vincoli normativi e finanziari, che non consentono di definire “pacchetti” di ingresso competitivi. Per attrarre i migliori talenti occorre allora agire su quegli aspetti che possono motivare le persone, valorizzando, anche in termini di comunicazione, l’apporto alla possibilità di contribuire al benessere collettivo, le opportunità di formazione, nonché di mobilità all’interno delle diverse amministrazioni e sul territorio nazionale o all’estero. E’ poi importante articolare la selezione in maniera diversa in relazione al personale con competenze di carattere organizzativo/gestionale e con competenze tecniche e specialistiche. In entrambi i casi occorre prevedere meccanismi di preselezione, volti ad accertare le inclinazioni dei candidati con riguardo alle competenze strategiche e innovative. A questi percorsi è opportuno affiancare dei fast track per reperire rapidamente le competenze che è più urgente acquisire. Ad esempio quelle digitali, di analisi dei dati, finanziarie, di progettazione necessarie per attuare il PNRR. In aggiunta servono programmi di selezione dei migliori talenti, prendendo spunto da alcune esperienze innovative, come ad esempio quella degli High Flyers Programme adottata dal Canada, che prevede “corsie” ad hoc per i neolaureati con il massimo dei voti con percorsi di studio presso università italiane e straniere e stage presso amministrazioni pubbliche di altri paesi e presso organizzazioni europee e internazionali.

 

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La terza si concentra sulla qualificazione – e riqualificazione – delle persone. Così come la selezione deve guardare alle competenze tecnico-specialistiche, a quelle strategiche e a quelle innovative, anche la formazione deve essere differenziata, affiancando ai tradizionali percorsi svolti dalla Scuola Nazionale dell’Amministrazione, progetti da realizzare in collaborazione con università italiane e straniere, nonché corsi di alto profilo con la presenza di esperti internazionali che possano portare conoscenze utili nella formazione di una classe dirigente aperta al mondo e all’Europa. Sarebbe interessante prevedere iniziative di formazione congiunte per dirigenti pubblici e privati a cui affiancare progetti di mobilità che coinvolgano anche il settore privato, contemplando l’ipotesi che il personale pubblico possa essere distaccato presso soggetti privati per la realizzazione di progetti di comune interesse. Questo consentirebbe, da un lato, di rafforzare la collaborazione con il settore privato, dall’altro, di acquisire conoscenze e tecniche manageriali innovative che potrebbero poi essere utilmente trasferite all’interno dell’amministrazione pubblica. Una maggiore interazione con il privato potrebbe poi creare sinergie in termini di rafforzamento della capacità di collaborazione, nonché di migliore comprensione reciproca, in modo da rendere l’attività dell’amministrazione più vicina alle esigenze del mondo produttivo e quella delle imprese più coerente con i principi e valori delle amministrazioni pubbliche. Claudio Cerasa, in un suo pezzo di qualche giorno fa, sottolineava come i cittadini durante la pandemia si siano fidati dello stato e si chiedeva perché non accada il contrario. Questi meccanismi potrebbero aiutare a costruire relazioni di fiducia, superando gli innati pregiudizi reciproci che da sempre rendono difficile l’interazione tra pubblico e privato.

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La quarta riguarda l’organizzazione del lavoro. Molto si potrebbe dire in proposito, ma è opportuno concentrarsi sulle attività con maggiore complessità che richiedono il confronto e la collaborazione tra più amministrazioni, per le quali sarebbe utile prevedere, come suggerito anche da Confindustria nel suo libro di proposte di settembre scorso, la possibilità di accentrare in capo a team multidisciplinari con la partecipazione di tutte le amministrazioni coinvolte (centrali, regionali, locali) la gestione di tutti i passaggi decisionali afferenti particolari attività. Un primo banco di prova potrebbe essere costituito dall’implementazione dei progetti previsti dal PNRR per poi rendere il meccanismo strutturale con riguardo a tutte le attività che richiedono il contributo di diverse amministrazioni e professionalità. La quinta concerne, infine, la qualità e produttività del lavoro pubblico, che non crescerà stabilmente in assenza di meccanismi seri ed efficaci di valutazione delle performance, orientati a valorizzare i risultati non soltanto tecnici, ma anche organizzativi, soprattutto per le posizioni dirigenziali e di vertice dell’amministrazione. In questo senso sarebbe utile integrare gli attuali meccanismi, che si sono tradotti in strumenti per l’erogazione di bonus in maniera poco selettiva, con sistemi che tengano conto dei feedback da parte degli utenti dei servizi, prevedano l’utilizzo di competenze specialistiche esterne all’amministrazione, la valutazione del team di lavoro. L’organizzazione richiede tempo, lavoro, visione, pragmatismo. Ma serve a consolidare i risultati delle riforme e a produrre effetti durevoli ed è tanto più importante se davvero si vuole aumentare l’efficienza del settore pubblico colmando finalmente il gap rispetto ai paesi nostri concorrenti.

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