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Ammodernare l’Italia

Il Recovery plan è un’occasione troppo grande per essere sprecata. Idee

Sergio Silvestrini*

La priorità? Rimuovere gli ostacoli alla nascita e alla crescita delle imprese. Il debito pubblico? Non più un tabù. Agenda Cna

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L’acceso dibattito sulla costruzione del Recovery plan italiano si concentra sulla destinazione delle ingenti risorse e solo marginalmente affronta alcuni aspetti che la Cna considera cruciali per non far deragliare un programma ambizioso di ammodernamento del paese. Ci sono due riferimenti che dovrebbero rappresentare l’architettura del piano: l’esperienza pluriennale dell’utilizzo dei fondi comunitari e la classifica Doing Business della Banca mondiale che inchioda l’Italia a un’impietosa 58esima posizione nel ranking, a distanza siderale da Stati Uniti e Gran Bretagna (sesti e ottavi in classifica) ma staccati anche da Germania, Francia e Spagna (tra le 22esima e la 32esima posizione). Il tema fondamentale della governance del piano non può prescindere da un’analisi della performance dell’impiego dei fondi comunitari che negli ultimi due anni mostra modesti miglioramenti non tanto per una maggiore efficienza della macchina pubblica (centrale e periferica) quanto per i margini di flessibilità concessi dalle istituzioni europee. I 51 progetti italiani del ciclo 2014-2020 finanziati dal Fondo sociale e dal Fondo di sviluppo regionale hanno centrato a fatica l’obiettivo di spesa ma in tre anni dovranno essere impegnati quasi 30 miliardi, un volume ben superiore alla capacità di utilizzo finora dimostrata, pari a circa 18 miliardi dal 2014 a oggi. E la lentezza caratterizza sia lo stato centrale che le regioni in egual misura. La crisi profonda esplosa con la pandemia non deve far dimenticare che l’Italia e la crescita economica sono incompatibili da 20 anni.

 

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Le cause sono ben note e si chiamano burocrazia farraginosa, pressione fiscale eccessiva, inefficienza della giustizia civile, difficoltà di accesso al credito, una fitta giungla normativa. Ostacoli che gravano soprattutto sulle micro e piccole imprese che stanno pagando il prezzo più elevato della crisi in atto. Al riguardo il Recovery plan dovrebbe finalmente superare il luogo comune che micro e piccole imprese rappresentano la zavorra del nostro sistema economico e la principale causa della bassa crescita mentre esprimono oltre un terzo degli addetti, il 55,6 per cento del fatturato, il 61,2 per cento degli investimenti e il 78,6 per cento dell’export secondo una analisi curata dal Centro studi della Cna che evidenzia come il numero complessivo delle micro imprese in Italia sia analogo a quello dei principali partner europei. Piuttosto il vero gap della struttura produttiva emerge nei segmenti delle medie e grandi imprese che sono circa un quarto rispetto alle oltre 12 mila della Germania. Micro e piccole imprese sono un ingranaggio vitale per il motore della crescita. Lo ha riaffermato la Commissione europea ma lo stanno dimostrando concretamente gli Stati Uniti che nel primo pacchetto di aiuti diretti hanno speso 660 miliardi di dollari destinandoli a imprese con meno di 500 dipendenti. Sopra quella soglia niente sussidi e nemmeno le garanzie pubbliche su prestiti ma solo benefici ai lavoratori. Rimuovere gli ostacoli alla nascita e alla crescita delle imprese (quelle attive da meno di 5 anni concorrono per oltre la metà alla nuova occupazione) deve essere la priorità dell’Italia per rafforzare il potenziale di crescita.

 

E infatti il Next Generation EU condiziona l’erogazione dei contributi alle “Raccomandazioni Paese”, l’elenco di riforme da realizzare. Nelle varie bozze del Pnrr invece il cruciale capitolo delle riforme non si scorge (se non per un pezzo sulla giustizia) e manca completamente una riflessione sui motivi per i quali il processo riformatore negli ultimi 20 anni sia nella sostanza fallito. Sul tema delle risorse, devono essere chiare le scelte richieste dalla strategia europea che individua nella digitalizzazione e nella transizione energetica le due grandi traiettorie di sviluppo. Per l’Italia significa far saltare alcuni retaggi novecenteschi che ancora condizionano il mercato del lavoro e la pubblica amministrazione e considerare due grandi mutamenti collaterali provocati dalla pandemia. Il primo è l’effetto acceleratore sui modelli organizzativi delle imprese innescato dallo smart working che potrebbe ridisegnare la geografia residenziale e produttiva ma anche il sistema di relazioni sociali. Il secondo è che il debito pubblico non rappresenta più un tabù e un vincolo rigido della politica economica. Ciò non significa una gestione allegra della finanza pubblica. Tutt’altro, obbliga ad allocare le preziose risorse in modo efficiente individuando i progetti che assicurano i più elevati effetti moltiplicatori della crescita.

 

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Si tratta di sfruttare al meglio un lungo periodo di tassi di interesse bassissimi. Per effetto della pandemia il rendimento medio dei titoli di stato italiani (Bot esclusi) a dicembre ha toccato il minimo storico allo 0,252 per cento, quasi 4 volte meno dell’anno precedente. Il Tesoro sta emettendo Btp 10 anni con cedola nominale 0,90 per cento e un rendimento dello 0,59 per cento che vanno a sostituire titoli con un rendimento effettivo del 4,80 per cento. Nonostante la crescita del fabbisogno di 41 miliardi nel 2020 la spesa per interessi è diminuita di 1,4 miliardi. I rendimenti negativi o nulli, quando va bene, offerti da moltissimi bond governativi stanno alimentando la ricerca di asset alternativi da parte degli investitori istituzionali come fondi pensione e casse previdenziali che hanno fame e necessità di ritorni decenti per le loro finalità. Le infrastrutture rappresentano l’approdo naturale e il Pnrr potrebbe essere il volano di flussi di investimento attivando un meccanismo virtuoso di cofinanziamento privato. La premessa è identificare rapidamente e con precisione i progetti infrastrutturali che offrono i maggiori rendimenti economici e sociali. La condizione è che lo stato non pretenda di ricoprire tutti i ruoli: giocatore, arbitro e giudice. Sarebbe il trionfo della confusione e del conflitto di interessi.

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Sergio Silvestrini, segretario generale della Cna

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