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Elon Musk come John Galt

Alberto Mingardi

Un eroe randiano capitato nell’ecosistema giusto per realizzare i suoi sogni da imprenditore

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John Galt o Tony Stark? Elon Musk è un personaggio eccessivo in tutto: oggi fa notizia perché è l’uomo più ricco del globo, a maggio perché vendeva le sue case per finanziare il progetto di una città su Marte, nel mezzo per dettagli piccanti emersi nel divorzio di Johnny Depp. Come Robert Downey Jr. nell’adattamento cinematografico del fumetto, non lesina battute salaci e fa capire di piacersi molto. L’eroe della “Rivolta di Atlante” di Ayn Rand aveva studiato fisica e filosofia (Musk fisica ed economia) per poi fare l’ingegnere-inventore e sviluppare un motore in grado di convertire l’elettricità statica atmosferica in energia elettrica.

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John Galt o Tony Stark? Elon Musk è un personaggio eccessivo in tutto: oggi fa notizia perché è l’uomo più ricco del globo, a maggio perché vendeva le sue case per finanziare il progetto di una città su Marte, nel mezzo per dettagli piccanti emersi nel divorzio di Johnny Depp. Come Robert Downey Jr. nell’adattamento cinematografico del fumetto, non lesina battute salaci e fa capire di piacersi molto. L’eroe della “Rivolta di Atlante” di Ayn Rand aveva studiato fisica e filosofia (Musk fisica ed economia) per poi fare l’ingegnere-inventore e sviluppare un motore in grado di convertire l’elettricità statica atmosferica in energia elettrica.

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Galt lascia l’impresa in cui lavora perché gli eredi del fondatore ne fanno un’azienda in cui tutti gli impiegati votano per attribuire mansioni e stipendi. In un’America soffocata dalla burocrazia e in cui l’ideologia dominante è un proto-politicamente corretto, buone intenzioni messe al servizio della collettivizzazione del collettivizzabile, Galt promuove uno sciopero dei cervelli, con i leader creativi che si ritirano nelle Montagne rocciose del Colorado lasciando il mondo a sperimentare come farne senza. “Se parlassi il vostro stesso linguaggio, direi che l’unico comandamento dell’uomo è: tu penserai”. Più modestamente, Elon Musk protesta contro il lockdown californiano e si sposta ad Austin, in Texas.

 

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Gli imprenditori, come gli esseri umani, sono fatti ognuno a modo suo. Fra quelli che ottengono grandi successi, alcuni lo devono alla prudenza, al caparbio esercizio di ridurre quanto più possibile gli errori, all’utilizzo il più assennato di ogni spazio e di ogni quattrino. Altri puntano sul coraggio, seguono sempre un obiettivo più grande nella convinzione, limpidamente irrazionale, che il mondo abbia bisogno di loro. Capace di fare un mucchio di tutte le sue vincite e rischiarle in un colpo solo a testa e croce, Musk lo è senz’altro e tutta la sua carriera – non solo il racconto della sua carriera – è un monumento alla potenza del sogno.

 

Da sveglio, il sognatore deve impegnarsi in una qualche forma di mediazione con la realtà. Musk voleva darci una valuta elettronica: con PayPal realizzò una società di pagamenti, nel 2002 venduta a eBay. Dopo sono venuti SpaceX, Hyperloop, Tesla. Le capsule del treno in assenza di aria per adesso restano nello scrigno delle idee. Di veicoli elettrici si parlava dai primi del Novecento ma solo con Tesla è riuscito a farne delle auto ambite, per quanto la sfida più importante, quella delle batterie, sia ancora da vincere. SpaceX è stata fondata nel 2002. La corsa allo spazio sembrava destinata a finire fra i cimeli della Guerra fredda. Musk, con SpaceX, e Jeff Bezos, con Blue Origin, hanno cambiato le regole del gioco, ridotto i costi del singolo lancio, infuso energia imprenditoriale nei vecchi programmi della Nasa. Per alcuni, Musk è la testimonianza palmare di quanto serva uno Stato imprenditore: Tesla è in larga misura sussidiata, nei suoi affari si avvale opportunisticamente di aiuti fiscali e agevolazioni messe a disposizione dai governi locali, SpaceX è un fornitore della Nasa. Il 16 novembre scorso per la prima volta astronauti dell’agenzia aerospaziale sono partiti per la Stazione spaziale internazionale a bordo di un razzo privato. Ma se Musk utilizza ogni occasione disponibile, è difficile sostenere che la sua fortuna sia un prodotto di un qualche “piano” uscito dalle stanze di un ministero. In epoca di capitalismo manageriale, Elon Musk non è un pollo d’allevamento, non ha nulla del funzionario e molto del genio con abbondante contorno di sregolatezza.

 

Lo Stato imprenditore sarà mica costruito per aprire a tipi così il portafogli dei contribuenti? D’altro canto, è parimenti eccessivo immaginare che egli sia stato l’unico fabbro della propria fortuna. Il primo debito di Musk è verso tutti gli innovatori che, magari senza mai occupare la pubblica scena, hanno prodotto quell’insieme di tecnologie che, a un certo punto, rendono realizzabili alcuni dei suoi sogni. Il secondo debito di Musk è verso una cultura: quella cultura per cui un ragazzo sudafricano che, passando per il Canada, arriva negli Stati Uniti ha il diritto di provare a sognare a proprio modo. Una cultura per cui solo chi non fa nulla non sbaglia mai e pertanto considera normale che si passi dai fallimenti ai successi, dalla polvere agli altari, e senza tante cerimonie. Nella misura in cui i suoi sogni cambieranno la nostra vita, quel debito sarà un po’ anche nostro.

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