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Il mito dello stato imprenditore

Deirdre McCloskey e Alberto Mingardi

Se la vera innovazione è “imprevedibile”, come può un programma governativo produrre “certamente” i risultati desiderati? Idiosincrasie e incoerenze del Mazzucato pensiero

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Il testo pubblicato è tratto dai capitoli 1, 19 e 24 del volume di Alberto Mingardi e Deirdre McCloskey, “The Myth of Entrepreneurial State” (Aier, 2020).
Si è diffusa una comune narrativa secondo cui lo stato è indispensabile per guidare gli investimenti e promuovere l’innovazione. Ma la verità è che la ricca economia moderna non è il prodotto della coercizione statale: nasce dall’ingegno umano emancipato dal basso verso l’alto.

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Il testo pubblicato è tratto dai capitoli 1, 19 e 24 del volume di Alberto Mingardi e Deirdre McCloskey, “The Myth of Entrepreneurial State” (Aier, 2020).
Si è diffusa una comune narrativa secondo cui lo stato è indispensabile per guidare gli investimenti e promuovere l’innovazione. Ma la verità è che la ricca economia moderna non è il prodotto della coercizione statale: nasce dall’ingegno umano emancipato dal basso verso l’alto.

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Lo “stato imprenditore” poggia su una teoria economica da filiera: una certa “infrastruttura” è posta in essere in virtù del fatto che lo stato compie un “investimento” sulla base di una “pianificazione”. Per citare un discorso di Obama, un’infrastruttura, quale può essere una strada, è necessaria all’azione privata. Le vostre azioni private dipendono dallo stato. Smettete di lamentarvi e fatevene una ragione. Siate grati. Siate contenti di pagare le tasse. E accettate il fatto che i padroni che spendono le vostre tasse sono saggi e necessari e, nel loro pianificare, perfino imprenditoriali. Lo stato è l’elemento creativo dell’economia. Qual è allora il significato pratico dello stato imprenditore? Anche su questo i suoi difensori hanno una teoria, stavolta una teoria politica.

 

Come sappiamo, ogni stato ama fare promesse che non può mantenere. Una delle sue principali promesse è quella di “guidare” lo sviluppo economico, di muovere il timone dell’economia in una direzione favorevole. Può essere uno sviluppo economico “verde”, oppure semplicemente una via verso la gloria, a seconda delle preferenze politiche. Lo stato è in grado di scegliere saggiamente i vincitori nella corsa economica. Come no! L’alternativa è costituita dalle terribili assurdità dei “neoliberisti”, in particolare la folle idea che il successo o il fallimento di un business dipenda da ciò che i consumatori scelgono o no di comprare. Dio ce ne scampi. A differenza dello stato, un’azienda opera nel mondo dell’imperfezione, poiché sia i consumatori sia le persone d’affari sono generalmente egoiste, ignoranti e infantilmente incuranti del futuro. La più recente sostenitrice della teoria dello stato imprenditore è Mariana Mazzucato. Mazzucato è stata R.M. Phillips professor of the Economics of innovation presso l’Università del Sussex e professoressa di Economics of Innovation and public value presso lo University College di Londra, finché nel 2020 non è diventata consulente per il governo italiano. Nell’ultimo decennio ha portato avanti con ammirevole vigore quella che lei stessa definisce una “battaglia discorsiva” contro l’infelice svalutazione, da parte degli economisti “neoliberisti”, del ruolo dei governi. Il problema del quadro da lei dipinto è che oggi gli economisti accademici non sono particolarmente favorevoli al libero mercato. Anzi, i professori di economia sono (quasi) tutti keynesiani.

 

E’ vero: per andare in battaglia, a Napoleone servirà una pianificazione militare, e per un singolo pasto a una madre servirà una pianificazione domestica. Ma un esercito o una famiglia possiedono un’unità di intenti e una semplicità di parti che ne fanno un modello inaffidabile per un mercato innovativo di decine di milioni di adulti liberi. Mazzucato riconosce che la vera innovazione è imprevedibile. Salvo affermare in modo illogico, sulla base di tale imprevedibilità, che coraggiosi “programmi” governativi di vario genere avranno certamente i risultati desiderati. In una frase del libro “Lo stato imprenditore” (2013) concede che stato e imprese “interagiscono talvolta in modi imprevedibili”. Ma nella stessa frase aggiunge che l’imprevedibilità si verifica “certamente in modalità che possono essere plasmate verso i fini desiderati”. Come “certamente”? Ha appena detto “imprevedibili”! Le due metà della frase sono in contraddizione. Se la direzione stessa di un’auto è imprevedibile, l’economista non è nelle condizioni di guidarla verso alcuna meta, desiderata o meno. Farlo significa mandarla fuori strada. Meglio fermarsi una volta per tutte e abbandonare il posto del guidatore. Un investimento in capitale fisico e umano è dopotutto un’azione umana, che normalmente avviene sulla base di conoscenze locali. E’ un’idea sensata erigere, in un quartiere di Chicago, un fabbricato che ospiti la sesta pizzeria nell’arco di due isolati? Che una qualsiasi versione dello stato – la città di Chicago, lo stato dell’Illinois, figuriamoci un’agenzia federale in quel di Washington – sia nella posizione di calcolare l’efficienza marginale di tale bene capitale sembra improbabile. Sarebbe già sorprendente se lo stato avesse da dire a riguardo qualcosa di vagamente intelligente. E’ assai più probabile che esso accordi il proprio favore secondo logiche indipendenti dal bene pubblico.

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Nei Paesi Bassi non si può aprire una farmacia a meno che l’amministrazione locale non vi dia il permesso, una volta consultatasi con… le farmacie esistenti. Mmm. Le concessioni di permessi in Irlanda o a Chicago commettono degli errori, sempre che vogliamo chiamarli errori: il loro intento di proteggere i proprietari esistenti a spese di quelli futuri è ovvio ed efficace. Politicamente non è un errore, benché economicamente sia una rovina. La conoscenza economica che occorre per prendere una decisione corretta in merito alla pizzeria è, in larga parte, nella testa del costruttore, il cui conto in banca, a differenza del conto del pianificatore pubblico, subisce un colpo in caso di perdita. Il costruttore ha tutti gli incentivi, privati e volontari, per scegliere bene, o per scegliere tanto bene quanto è ragionevole aspettarsi in questo fievole crepuscolo che chiamiamo realtà. Mazzucato non crede che l’azione umana, e in particolare la valutazione soggettiva, sia ciò che dà valore alle cose. Ella segue il proprio eroe Marx e – ammettiamo a malincuore – il nostro eroe Adam Smith nell’oscurità prescientifica. Riflettendo sul “valore”, nel 1776 Smith osservò che “nulla è più utile dell’acqua; ma con essa non si potrà acquistare quasi nulla e difficilmente si potrà ottenere qualcosa in cambio. Un diamante, al contrario, non ha quasi nessun valore d’uso; ma con esso si può spesso ottenere in cambio una grandissima quantità di altri beni”. Smith era perplesso in quanto il valore d’uso non corrispondeva alla sua teoria secondo cui è il lavoro che dà valore alle cose. Gli economisti classici nella scia di Smith – come Ricardo, Mill e Marx – condivisero la medesima perplessità, pensando che dovesse esserci qualche oggettiva “fonte del valore”; cioè, la quantità di lavoro necessaria a produrre il bene o servizio. Così, il valore di un tot di diamanti dovrà essere sempre maggiore del valore di un tot d’acqua, perché il diamante (tanto più, quanto più è grande) richiede più lavoro. Alla vigilia di un uragano annunciato, un foglio di compensato 4x8 è estremamente prezioso, indipendentemente da quanto sia costato produrlo, in termini di lavoro o d’altro. Le persone si lamenteranno della speculazione sui prezzi, com’è avvenuto durante la pandemia da Covid-19 per i ventilatori destinati ai pazienti con crisi respiratorie. La protesta è infantile. Bisogna affrontare la realtà. Volete avere il foglio di compensato e il ventilatore, oppure no? Se per voi il prezzo è troppo alto, nessun problema. Ci sarà qualcun altro che riterrà soggettivamente più importante rinforzare le sue finestre o salvare i suoi pazienti. L’alternativa non è un mondo di abbondanza, miracoloso e magico, ottenibile semplicemente stabilendo un tetto ai prezzi; l’alternativa è un metodo più goffo di allocazione di beni scarsi, non basato sui prezzi, come quando la Casa Bianca di Trump distribuì i ventilatori ai governatori repubblicani.

 

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Un secolo più tardi, i tre moschettieri Menger, Jevons e Walras risolsero l’enigma del valore e trasformarono l’economia da un’erronea scienza del valore-lavoro in una solida scienza del valore marginale, soggettivo. Il prezzo di mercato dell’acqua è determinato dalla quantità al margine, l’ultima a essere utilizzata, ed è il più delle volte inferiore al valore della stessa quantità di diamanti. Il “valore” dipende dalle circostanze, ad esempio quanto di quel bene avete già consumato. Il terzo cono gelato in un quarto d’ora non dà altrettanto piacere del primo. Sareste disposti a pagare di più per un bicchiere di San Pellegrino che per un diamante da 18 carati, se aveste camminato nel deserto per giorni. Robinson Crusoe che estrae dal relitto degli utensili da lavoro, sdegnando invece le monete d’oro, è un altro esempio classico. Così come la bellezza è negli occhi di chi osserva, il valore è negli occhi dell’attore economico. “Soggettivo” non significa altro che questo. Il “costo” non ha a che fare con la contabilità storica di un bene, per quanto questa possa parzialmente spiegare a che prezzo un fornitore è disposto a venderlo. Nel valore non c’è niente di “intrinseco”, niente di oggettivamente misurabile, niente che appartenga alle cose stesse a prescindere dalle preferenze e dalle circostanze. Gli esseri umani hanno creduto a lungo che il valore fosse oggettivo, intrinseco. Nella teoria del valore-lavoro adottata sotto la pianificazione sovietica non c’era posto per il valore soggettivo. Per fabbricare l’orrendo e investibile impermeabile verde occorrevano 20 ore, e così l’indumento era venduto allo stesso prezzo di una sciarpa dal design accattivante, che richiedeva lo stesso numero di ore, benché l’impermeabile restasse invenduto e le sciarpe si esaurissero all’istante.

 

Ecco gli effetti della pianificazione. Persone diverse valutano le cose in modo diverso a seconda delle circostanze. E’ così che gli economisti vedono la questione sin dagli anni ‘70 dell’Ottocento. Prima che emergesse la concezione marginalista del valore, per diversi secoli le persone si sono preoccupate di quale fosse il “giusto prezzo”. Questo concetto ha permeato il modo in cui le persone ragionavano di economia, e lo fa tutt’ora. L’idea di “giusto prezzo” e la teoria del valore lavoro, che la giustifica, sono ancora influenti nelle decisioni di policy: dal divieto di usura alle leggi suntuarie, chi tiene le redini dello stato ha sempre cercato di stabilire cosa si poteva vendere e cosa no, in quali giorni, a quale prezzo, a quali condizioni. E’ giusto così, dicevano. Ma è una visione antiumanista, che tratta le persone come pedine da muovere su una scacchiera. E’ da qui che nasce la pianificazione sovietica, come anche la pretesa di Mazzucato di controllare l’innovazione. Un economista che non afferri il marginalismo è un po’ come un chimico che non sappia leggere la tavola periodica. Mazzucato ritiene che il marginalismo non possa “misurare ciò che Smith chiamava ‘la ricchezza delle nazioni’, la produzione totale di un’economia in termini di valore”. Si che può: questa misura è data dal pil. Ma Mazzucato vuole di più: “Poiché il valore è ormai un concetto solo relativo (...) non possiamo più misurare il lavoro che ha prodotto i beni di un’economia e in tal modo stabilire quanta ricchezza sia stata creata”. Occorre tornare al tempo in cui “il valore dei (...) prodotti derivava dalla quantità di lavoro che era servito per produrli, dai modi in cui i cambiamenti tecnologici e organizzativi impattavano sul lavoro e dal rapporto tra capitale e lavoro”. E’ convinta che “con l’utilità marginale non ci sono più classi, ma solo individui, e non c’è alcuna misura oggettiva del valore”.

 

Che un’economista faccia oggi tali affermazioni è incredibile. Quella di Mazzucato è un’economia della routine (e non della scoperta), della struttura (e non dell’innovazione), delle catene di produzione (e non dei sostituti), dell’ufficio (e non del mercato), dell’abitudine (e non della creatività) e soprattutto della coercizione (e non della persuasione). E’ come cercare l’etere, il flogisto o l’evoluzione secondo un disegno. Una confusione teorica che ha conseguenze pratiche. Mazzucato è stata fra i consulenti che hanno aiutato il governo italiano a concepire piani per il dopo pandemia. In Italia, come in molti altri paesi, lo stato ha chiuso le attività “inessenziali”. Solo che, in un’economia complessa, capire quali siano tali attività è impossibile. Mazzucato ritiene che “se in un’economia ci sono lavoratori ‘chiave’ o ‘essenziali’, il passo successivo è individuare la parte ‘essenziale’ dell'economia, che ha bisogno di finanziamenti, sostegno e ripensamento. Il corollario è capire in che modo così tanto valore sia stato estorto dalla parti ‘non essenziali’ e invertire la rotta”.

 

Difficile non notare il lessico marxista. Ed è evidente che la sua fallace teoria del valore la induca a porsi il problema di come redistribuire le risorse a cui voi date valore. Mi spiace, miei cari, sono io a decidere, non voi. E’ questa l’implicazione politica della distinzione tra essenziale e non essenziale. Uno dei problemi più grandi di tale distinzione è che postula una gerarchia inalterabile di bisogni e preferenze. Se accettiamo tale gerarchia, l’economia è una semplice questione ingegneristica: un ingegnere-capo benevolo può ordinare i fattori di produzione in modo che le persone ottengano sempre i beni “essenziali” di cui hanno bisogno, un po’ come gli impermeabili verdi della pianificazione sovietica. Caratterizzare alcune attività come “parassitarie” (o “estrattrici di valore”) significa avere una comprensione amatoriale di come funzioni l’economia. I servizi finanziari “estrattori di valore”, l’esempio preferito dagli amatori, concedono risorse a imprenditori in grado di innovare. Le nuove idee sono sempre “inessenziali”: come può essere essenziale qualcosa che non si conosce? La bicicletta e l’automobile, inizialmente, erano giocattoli da ricchi. Nel 1783 Benjamin Franklin era presente in Francia al lancio del primo uomo in mongolfiera. Quando qualcuno domandò sbuffando: “E quello a che cosa serve?”, Ben rispose: “A cosa serve un neonato?”.

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