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CHI SALE, CHI SCENDE

E la Cina? Molto bene

Stefano Cingolani

Tra le cento aziende migliori del 2020, 36 sono cinesi e 30 americane. In settori trainanti. Cose da capire e incognite

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Il Nasdaq ha corso a perdifiato durante l’annus horribilis: l’indice dei titoli tecnologici è salito del 43 per cento rispetto a gennaio ed è raddoppiato dopo il tonfo di marzo, quando l’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato la pandemia. Nessuno è riuscito a fare meglio. Lo seguono a ruota solo le principali Borse cinesi come Shenzen (+32 per cento) e Shanghai (+24), tallonate da Tokio (+16 il Nikkei) e da Mumbai. Lontane Amsterdam e Francoforte (+3,8 e +3,5) negative tutte le altre con Londra e Madrid in coda (-13 e -14,5). Se la classifica dei listini rispecchia il grande gioco degli scambi, allora il 2020 ha confermato gli equilibri mondiali, economici (e non solo), che il Covid 19 non ha alterato; anzi. Gli Stati Uniti mantengono il loro primato tecnologico, a insidiarli la Cina e le potenze asiatiche, vecchie come il Giappone e più nuove come l’India. Anche la Tesla ha corso a più non posso. A gennaio dell’anno scorso tutti pensavano che sarebbe scoppiata come una lampadina o meglio una gigantesca bolla delle illusioni perdute. E invece eccola là, con una capitalizzazione di 729 miliardi di dollari; proprio nel 2020 è diventata la numero uno al mondo, prima della Toyota e della Volkswagen. Tengono testa nella grande corsa all’auto del futuro le concorrenti cinesi come la NIO, che fino a sei anni fa era una startup fondata a Shanghai per lanciarsi nella riffa delle vetture elettriche. Solo nel 2017 ha messo in strada il primo veicolo, con una innovazione che sembra l’uovo di Colombo: il cambio in tempo reale delle batterie.

 

Nel maggio 2018 ha aperto la prima stazione di servizio, ma il vero decollo è avvenuto lo scorso anno. Niente più lunghe attese attaccati a un filo. Pochi minuti ed è fatta. Può diventare un salto nel futuro, anche se i costi restano elevati. Elon Musk comincia a preoccuparsi. Il Financial Times ha pubblicato nella edizione dello scorso weekend la lista dei cento business di maggior successo: ebbene 36 imprese sono cinesi e 30 americane. Guida la classifica proprio Tesla, seguita da Sea Group (giochi digitali) di Singapore e Zoom (sino-americana, fondata da Eric Yuan nato nella provincia di Shandong dove si è laureato prima di sbarcare a Stanford nel 2006). Al quarto posto Pinduoduo, il gruppo cinese di e.commerce che ha fatto un balzo del 70 per cento in tempo di pandemia; poi ancora la BYD (auto elettriche) nella quale ha investito in modo consistente anche Warren Buffett. Seguono Xinghuacun Fen (bevande alcoliche e vino, amatissimo dalla nuova classe media), LONGi (tecnologie per l’energia verde), IL CATL (componenti per auto elettriche). Nel lungo elenco colpiscono in modo particolare proprio le imprese cinesi: una gamma vasta di aziende e settori merceologici tra i quali la farmaceutica e la salute, l’alimentare, la logistica e i servizi finanziari dove la Cina è rimasta indietro rispetto agli Stati Uniti e all’Europa. Nel catalogo dei maggiori successi c’è ad esempio East Money Information, trading online, che ha raddoppiato il giro d’affari e triplicato i profitti, spinta proprio dalla pandemia. La Cina è l’unico grande paese che cresce nel bel mezzo della mega recessione mondiale: nel terzo trimestre del 2020 il prodotto lordo ha fatto registrare un più 4,9 per cento, contro il meno 2,8 degli Stati Uniti, il meno 4,3 dell’area euro, il meno 8,6 del Regno Unito.

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Risultati notevoli tenendo conto che il Covid-19 si è manifestato proprio nel gigante asiatico e lunghe ombre cinesi coprono la genesi del Sars Cov2 oltre che i modi e i tempi della sua diffusione. Pechino ha vinto la guerra del virus? Lo si sente dire da più parti e non solo dalla propaganda. Un bilancio delle conseguenze economiche e politiche della pandemia potrà essere stilato solo quando l’emergenza finirà. Tuttavia sia i dati macroeconomici sia quelli micro, compresa la lista del Financial Times, obbligano a un bagno di realtà, cominciando con il riconoscere la complessità del modello cinese che, a differenza da quello russo (sia sovietico sia post comunista), non può essere ridotto a una plutocrazia autoritaria. Anche se autoritarismo e plutocrazia formano una gabbia potente a Pechino come a Mosca, l’economia cinese non è solo in mano a un pugno di mandarini o oligarchi dipendenti dai favori politici, né il suo prodotto lordo dipende in modo pressoché esclusivo dalla esportazione di materie prime. Per capire che cosa la Cina riserva a se stessa e al mondo intero bisognerà in ogni caso attendere.

 

Gli stessi analisti più attenti sono divisi, per non parlare del mondo politico. Gli Stati Uniti sono furiosi (e lo sono anche i consiglieri di Joe Biden) per l’accordo firmato dall’Unione europea (sotto la spinta determinante della Germania) considerato un successo politico di Xi Jinping in cambio di concessioni importanti per le imprese europee che esportano nell’Impero di Mezzo (per esempio non sarà più necessario scegliere un partner locale per operare in Cina). Nello stesso tempo Wall Street ha sospeso la espulsione dal listino di tre compagnie cinesi controllate dallo stato come China Telecom, China Mobile e China Unicom, decisa da Donald Trump con un ordine esecutivo. Né la Ue né gli Usa hanno una chiara strategia. E segnali contraddittori arrivano anche da parte cinese. Xi Jinping ridimensiona “il progetto del secolo”, la cosiddetta Nuova via della seta, mettendo al primo posto il mercato interno. Ciò può aprire la strada a un conflitto aperto tra il potere politico e quello economico: il giro di vite nei confronti di Jack Ma, il capitalista di maggior successo, fino a poco fa popolare al punto da venir chiamato Papà Ma, è un segnale chiaro. L’equilibro del sistema capitalista di mercato si può rompere e Pechino può essere tentata di seguire le orme di Putin, anche se Jack Ma, a differenza da Mikhail Khodorkovsky, non ha mai apertamente sfidato Xi Jinping. In apparenza a Pechino tutto si svolge secondo le regole: si tratta di una inchiesta contro pratiche contrarie alla concorrenza da parte di Alibaba e la sua consociata finanziaria Ant, ma guarda caso le regole sono cambiate alla vigilia della quotazione in borsa di Ant nel novembre scorso. Il problema è sempre lo stesso: chi controlla i controllori in un sistema non democratico?

 

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