PUBBLICITÁ

Utilizzare il Recovery fund per trasformare l'Italia in un paese innovatore

Alfonso Fuggetta

Si moltiplicano le iniziative pubbliche per finanziare nuovi centri e startup. Ma non è così che si creano sviluppo e innovazione

PUBBLICITÁ

Come spendere i soldi del Recovery fund? Dove investire questa massa  di risorse che, come molti dicono, non abbiamo visto dai tempi del Piano Marshall e che probabilmente non vedremo più per molti anni a venire? 

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Come spendere i soldi del Recovery fund? Dove investire questa massa  di risorse che, come molti dicono, non abbiamo visto dai tempi del Piano Marshall e che probabilmente non vedremo più per molti anni a venire? 

PUBBLICITÁ

     

Innovazione e digitalizzazione dovrebbero essere le priorità. Eppure su questo fronte si leggono ogni giorno notizie confuse che destano non poca preoccupazione: si parla di nuovi e non meglio definiti “poli per l’innovazione e la ricerca”, “campioni nazionali delle tecnologie”, “ecosistemi dell’innovazione”, “campioni regionali”. Un profluvio di espressioni il cui significato è francamente vago e, soprattutto, svela una mancanza di conoscenza dei problemi e delle dinamiche dei processi di innovazione e ricerca. 

    

PUBBLICITÁ

In primo luogo, evocare la creazione di nuovi centri e strutture (o generiche sovrastrutture) non li rende automaticamente reali e fattibili. I centri della rete Fraunhofer si sono sviluppati nell’arco di cinquanta anni. La creazione dell’IIT di Genova (caso unico nel nostro paese per risorse e investimenti) ha richiesto dieci anni per arrivare a un significativo stadio di sviluppo nel campo della ricerca. I Competence Center previsti dal Piano Impresa 4.0, a quasi cinque anni dal loro lancio, sono ancora in fase di avvio. Le imprese italiane faticano a trovare giovani laureati STEM da assumere e qui si pensa di creare nuove realtà che dovrebbero da subito (con quali persone, processi e metodi di lavoro?) accompagnare il percorso di uscita del paese dalla crisi che non è solo quella causata da Covid, quanto il risultato di decenni di politiche insufficienti e confuse, se non assenti, in tema di ricerca e innovazione. 

     

In secondo luogo, si ignora completamente la situazione reale del paese. In Germania, per tutte le tematiche dell’innovazione (non solo la digitalizzazione), la rete Fraunhofer dispone di 72 centri. Il sistema Atlante 4.0 del ministero dello Sviluppo economico (Mise) e di UnionCamere censisce nel settore dell’innovazione e della digitalizzazione circa 600 strutture che coinvolgono migliaia di persone. Oltre ai Competence Center, sempre il Mise ha certificato alcune decine di Centri per il Trasferimento tecnologico 4.0. Siamo inoltre sommersi da strutture che svolgono funzioni di raccordo, networking e promozione dell’innovazione, quando in effetti abbiamo bisogno di capacità progettuali e realizzative in grado di offrire alle nostre imprese un contributo concreto di merito e di contenuto. Il problema quindi non è certo creare nuove strutture o di complicare un quadro di suo già alquanto caotico, quanto ripensare e qualificare questo confuso mondo che spesso vive di sussidi pubblici senza una reale e convincente capacità operativa e di autosostentamento.

    

In terzo luogo, si moltiplicano iniziative pubbliche (o para-pubbliche) volte a finanziare aziende e startup. Si tratta di iniziative che se mal pensate possono introdurre distorsioni e conflitti in un mercato dove lo stato verrebbe a svolgere sia il ruolo di regolatore e legislatore, sia di azionista di imprese che in quel mercato operano. In generale, si ignorano le dinamiche della ricerca e dell’innovazione. Sta passando l’idea che il problema possa essere risolto da uno stato “imprenditore e innovatore”, idea peraltro basata su un’interpretazione distorta e confusa di quelli che sono i reali modelli di intervento pubblici di altri paesi (a partire dagli Stati Uniti). Che fare quindi? Servono poche azioni chiare e di immediata attuazione.

PUBBLICITÁ

    

PUBBLICITÁ

Sul fronte ricerca, è necessario avere bandi strutturali e competitivi dedicati alla ricerca di base. E’ dalla ricerca di base che nasce la conoscenza – l’intellectual property – che alimenta il processo di innovazione e di creazione di nuova imprenditorialità e startup ad alto contenuto di tecnologie e conoscenza. Il nostro paese, a differenza di altri  a cominciare proprio dai tanto evocati Stati Uniti, si affida a poche  risorse allocate in modo intermittente ed estemporaneo, senza alcuna sistematicità e regolarità. Di fatto, al contrario degli altri paesi, i ricercatori italiani possono solo contare sui finanziamenti europei che, pur essendo particolarmente selettivi e competitivi, vedono un significativo successo dei nostri colleghi.

    

PUBBLICITÁ

L’innovazione ha come obiettivo lo sfruttamento della conoscenza per avere un impatto (non necessariamente o unicamente economico) sul mercato e sulla società. E’ un processo che si articola su due principali flussi: il primo (push) procede dalla ricerca o dallo sviluppo di idee innovative alla creazione di nuove imprese (startup); il secondo (pull) parte dai problemi delle aziende presenti sul mercato e crea soluzioni in grado di risolvere le sfide che esse si trovano ad affrontare. Nel farlo, è vitale sfruttare al meglio il know-how, le tecnologie, il capitale umano disponibile. Se il primo flusso mira soprattutto a creare nuove imprese, il secondo tende a potenziare e rafforzare le imprese esistenti. Sono due flussi complementari ed egualmente vitali per il nostro paese.

    

Per sostenere il primo flusso (push) sono necessari strumenti quali acceleratori, incubatori, venture capital, private equity. Essi devono operare secondo logiche di mercato. Lo stato può stimolare l’innovazione e la creazione di nuove imprese soprattutto abbassando la soglia di rischio su quelle iniziative che un investitore privato non potrebbe altrimenti affrontare. Vitali in questo caso sono garanzie e investimenti in fondi di fondi. Peraltro, non si tratta di regalie ai privati come taluni polemicamente osservano, ma investimenti ad alto rischio che in caso di successo porterebbero anche all’investitore pubblico un adeguato ritorno.

    

Nel caso del flusso pull, è vitale finanziare la domanda di innovazione e non l’offerta. Non serve creare nuovi centri o aumentarne le dotazioni. Come vengono spese queste risorse? Per chi? Come gestirne l’erogazione? Non certamente tramite bandi che hanno procedure e dinamiche incompatibili con le sfide e la velocità richieste da processi di innovazione che abbiano una reale opportunità di successo. Peraltro, come visto, esistono già una molteplicità di iniziative e strutture di supporto all’innovazione che spesso non riescono ad interagire in modo efficace con le imprese, aiutandole ad avviare e condurre reali progetti di innovazione. Per questi motivi ha senso agire sul lato domanda di innovazione, prevedendo strumenti che spingano le imprese a innovare e ad attivare collaborazioni progettuali con chi è da esse ritenute capace di portare un reale contributo. Meccanismi come il credito di imposta hanno questa natura e prevedono una molteplicità di vantaggi: sono automatici, certi e veloci; portano un vantaggio immediato all’impresa sia sul fronte del conto economico che del flusso di cassa; forniscono uno stimolo immediato alle imprese affinché avviino progetti di innovazione, abbassando i rischi dei progetti di innovazione; spingono il mondo dell’offerta di innovazione (startup, centri di innovazione, università) a qualificarsi e rafforzarsi per poter essere un “fornitore” credibile e capace di rispondere concretamente e velocemente alle richieste e sfide che vengono formulate dalle imprese (come stiamo facendo con InnovAction, insieme a FBK, Fondazione Links e Campania NewSteel-Università di Napoli Federico II).

    

Un ulteriore essenziale tema è quello della qualificazione della spesa pubblica attraverso un procurement che stimoli l’innovazione dell’offerta. Per indirizzare i propri bisogni e per sviluppare il territorio (si pensi per esempio alle infrastrutture di trasporto) lo stato e gli enti locali spendono e investono ingenti risorse che, se ben indirizzate, potrebbero stimolare e far crescere il tessuto delle imprese. Una domanda pubblica poco qualificata, al contrario, deprime e inibisce la capacità innovativa del tessuto economico del paese. Questi interventi sul fronte dei contenuti dovrebbero infine essere accompagnati da misure legislative che rendano conveniente e facile innovare, scongelando il potenziale del paese (come scrive Carlo Alberto Carnevale Maffè nel mio ultimo libro “Il Paese Innovatore”).

    

Si tratta di pensare pochi strumenti, chiari, adatti a rispondere ai bisogni specifici della nostra società e dell’economia, e che in modo realistico e concreto siano in grado di intervenire immediatamente per rilanciare un percorso virtuoso di crescita del nostro tessuto imprenditoriale. Sono interventi che uno stato lungimirante può e deve attuare per far sì che tutto il paese innovi e cresca. Non esistono altre strade per uscire dalla crisi che stiamo vivendo. 

   

Alfonso Fuggetta
Cefriel – Politecnico di Milano, autore del libro “Il Paese innovatore” (Egea editore) 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ