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È ora di correre, cara Europa

Claudio Cerasa

C’è un populismo nascosto anche tra i campioni dell’antipopulismo, che vogliono combattere i giganti del big tech invece di  mettere i più piccoli nelle condizioni di competere con i più grandi. Per tornare a crescere non c’è posto per l’autolesionismo 

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E adesso è ora di correre, cara Europa. La pandemia, si sa, ha costretto tutti i paesi del mondo ad accelerare, per quanto possibile, le transizioni digitali e anche l’Europa, su questo fronte, ha registrato numeri da record, offrendo per il futuro indicazioni utili per combattere un nemico invisibile che si annida da tempo nel cuore del nostro continente: il pregiudizio incomprensibile contro i giganti della tecnologia. Nel settore tecnologico, per fare un primo esempio, gli investimenti privati totali hanno toccato quota 41 miliardi, una cifra record, e sono state 18 le società sostenute dai venture capital che hanno raggiunto un valore superiore al miliardo di dollari. A questo, come riportato a dicembre nel report annuale sullo stato della tecnologia europea redatto da Atomico, fondo di venture capital, vanno aggiunti poi altri due elementi cruciali: gli investitori istituzionali – come fondi pensione, compagnie assicurative, fondi europei e globali – riversano oggi il triplo delle risorse nell’industria tecnologica europea rispetto a cinque anni fa (l’Italia purtroppo va controcorrente: qui i finanziamenti provenienti da venture capital hanno subìto un calo del 22 per cento, da un record di 450 milioni di euro nel 2019 si è passati a 400 milioni di euro nel 2020) e il valore d’impresa totale stimato delle società tecnologiche europee fondate dopo il 2000, quotate e non quotate in Borsa, è salito a quasi mille miliardi di dollari (960 miliardi di dollari), quintuplicando il valore raggiunto nel 2016 (191 miliardi di dollari).

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E adesso è ora di correre, cara Europa. La pandemia, si sa, ha costretto tutti i paesi del mondo ad accelerare, per quanto possibile, le transizioni digitali e anche l’Europa, su questo fronte, ha registrato numeri da record, offrendo per il futuro indicazioni utili per combattere un nemico invisibile che si annida da tempo nel cuore del nostro continente: il pregiudizio incomprensibile contro i giganti della tecnologia. Nel settore tecnologico, per fare un primo esempio, gli investimenti privati totali hanno toccato quota 41 miliardi, una cifra record, e sono state 18 le società sostenute dai venture capital che hanno raggiunto un valore superiore al miliardo di dollari. A questo, come riportato a dicembre nel report annuale sullo stato della tecnologia europea redatto da Atomico, fondo di venture capital, vanno aggiunti poi altri due elementi cruciali: gli investitori istituzionali – come fondi pensione, compagnie assicurative, fondi europei e globali – riversano oggi il triplo delle risorse nell’industria tecnologica europea rispetto a cinque anni fa (l’Italia purtroppo va controcorrente: qui i finanziamenti provenienti da venture capital hanno subìto un calo del 22 per cento, da un record di 450 milioni di euro nel 2019 si è passati a 400 milioni di euro nel 2020) e il valore d’impresa totale stimato delle società tecnologiche europee fondate dopo il 2000, quotate e non quotate in Borsa, è salito a quasi mille miliardi di dollari (960 miliardi di dollari), quintuplicando il valore raggiunto nel 2016 (191 miliardi di dollari).

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Le imprese europee hanno dunque iniziato a correre, durante la pandemia, ma nonostante i molti sforzi fatti dall’Europa per offrire ai paesi membri strumenti utili per tornare a correre nel post pandemia (viva la solidarietà, viva la coesione, viva il sovranismo europeo) vi è un ambito in cui l’Europa, da anni, ha scelto di fare di tutto per non far correre le proprie imprese come potrebbero e come dovrebbero. E quell’ambito coincide con quello che in una stagione come quella attuale piuttosto che essere ostacolato andrebbe incentivato e valorizzato: il mondo della tecnologia.

 

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Il Wall Street Journal, in modo provocatorio, ma neppure troppo, ha giustamente suggerito all’Europa, qualche giorno fa, di porsi una domanda strategica: non chiedersi cosa deve fare in più per regolamentare le aziende digitali, tema di cui Bruxelles si occupa notte e giorno, ma chiedersi come mai l’Europa non ha grandi aziende specializzate in big tech da regolamentare, tema di cui purtroppo sembra non interessarsi a sufficienza. La domanda è stata posta all’indomani del nuovo regolamento fatto proprio dall’Antitrust europeo e il regolamento è quanto di più punitivo  possa esistere per i giganti del tech. Lo è perché prevede, per la gioia dei giustizialisti d’Europa, maggiori poteri di indagine, inasprimento delle sanzioni e multe per le società che non rispettano le regole sulla concorrenza fino al 10 per cento del loro fatturato globale (per un gruppo come Amazon significherebbe dover pagare multe fino a circa 28 miliardi di euro) e lo è perché le multe create valgono per tutte quelle piattaforme che raggiungono almeno il 10 per cento dei 450 milioni di consumatori dell’Ue, soglie che sembrano essere costruite appositamente per colpire i giganti americani della tecnologia.

 

L’inasprimento delle regole non è allarmante solo per le ragioni che hanno spinto l’Europa a prendere una decisione del genere (considerare cioè dei furfanti fino a prova contraria tutti i colossi americani della tecnologia) ma lo è anche perché rappresenta un autogol bestiale per gli imprenditori europei, che di fatto hanno un incentivo in più per non diventare troppo grandi e per proiettarsi al di fuori dei confini nazionali. “L’Europa – nota ancora il Wsj – potrebbe avere maggiori campioni tecnologici rispetto a quelli che ha in questo momento (a parte Spotify, nulla, ndr) se la tassazione del capitale di rischio fosse meno punitiva, o se le leggi sul lavoro delle startup fossero meno onerose, o se l’applicazione antitrust dei servizi mobili fosse meno complicata. Le proposte tecnologiche dell’Ue purtroppo sono le ultime di una lunga serie di politiche contro l’imprenditorialità. E qualunque sia il regime normativo che i giganti della tecnologia potrebbero richiedere o meritare, a nessuno sfugge che coloro che subiranno il danno maggiore di tutto questo saranno i newcomer europei”. L’atteggiamento autolesionista dell’Europa ha una sua matrice tanto politica quanto culturale e quella matrice coincide con un’ideologia purtroppo molto diffusa tra i legislatori europei: l’idea che la forza dei giganti della tecnologia sia legata alla loro posizione di monopolisti unici del proprio settore. E così Google sarebbe un diabolico monopolista perché non avrebbe concorrenti veri nel mondo dei motori di ricerca. E così Facebook sarebbe un diabolico monopolista perché non avrebbe concorrenti veri nel mondo dei social network. E così Amazon sarebbe un diabolico monopolista perché non avrebbe concorrenti veri nel mondo del commercio online. E così Apple sarebbe un diabolico monopolista in quanto svantaggerebbe i suoi concorrenti abusando, nel mondo delle app, della sua posizione dominante.

 

Si tratta di una logica questa sì purtroppo dominante che fa leva su un pregiudizio drammaticamente esteso: l’idea che i servizi offerti da Facebook, Amazon, Apple e Google siano scelti dagli utenti semplicemente perché gli utenti non hanno alternative credibili. E per questo, per favorire la concorrenza, dice l’Unione europea, occorre limare quanto più possibile le posizioni dominanti. La logica è chiara ma non è difficile capire che è una logica perversa e che non tiene conto di alcune questioni elementari. Primo: nel mercato libero, ogni utente ha sempre un’alternativa. Secondo: Facebook, Amazon, Apple e Google non solo non sono dei monopolisti (monopolisti che in questi mesi di pandemia ci hanno però letteralmente salvato la vita) ma sono tutti giganti del mercato in lotta l’uno con l’altro. Terzo: come dimostra la storia recente di alcuni titani della tecnologia, come Nokia, come Kodak, come Blockbuster, come Aol, come Atari, come Polaroid – che nelle loro stagioni d’oro vennero accusati a vario titolo di abusare delle proprie posizioni dominanti e che oggi sono invece tutte più o meno fallite lasciando spazio ai concorrenti che si sono fatti strada non facendo leva sulle regole punitive tarate sui colossi, ma adattandosi semplicemente al mondo che cambiava – ciò che le autorità antitrust devono avere al centro della propria agenda non è come limare le posizioni dominanti ma è come aiutare chi non vuole restare piccolo a diventare grande. E su questo fronte chi deve diventare grande non sono solo le aziende del big tech europeo ma è la stessa Europa, ancora incapace, nonostante la stagione pandemica, di favorire un mercato unico digitale nella Ue e di trovare un modo utile per smetterla di fare quello che ha fatto fino a oggi, ovvero intrappolare le piccole imprese nella bolla del nanismo industriale.

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Se l’Europa del futuro ha davvero intenzione di crescere, di rinnovarsi, di evolversi e di adattarsi con intelligenza a un mondo che cambia, oltre che combattere i populisti che la vogliono distruggere farebbe bene a combattere, sul tema della tecnologia, il populismo nascosto anche tra i famigerati campioni dell’antipopulismo. E’ ora di correre, cara Europa. 

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