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Eppur si muove

Stefano Cingolani

Da Menarini a Ferrero. Quotazioni in Borsa, fusioni e acquisizioni. L’anno funesto del virus ha cambiato il capitalismo, ma non l’ha fermato

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Come va? So che è una domanda retorica. Per lei sarà un disastro”. “Ma che dice, non ho mai lavorato tanto”. Il banchiere d’affari incontrato in una delle scarse occasioni conviviali, è perentorio quanto sorprendente. Ma come, e la crisi? Non stiamo tutti pancia a terra cercando di nuotare? “Invece – continua il banchiere – molte cose si sono messe in moto, anche se non appaiono”. E lì a snocciolare l’inglese: ai-pi-ou (Ipo), em-and-ei (M&A), insomma prime quotazioni in Borsa, fusioni e acquisizioni, e via di questo passo. Certo, se prendiamo la media, siamo sotto il 2019, ma è colpa del lockdown totale nella prima metà dell’anno, poi le cose sono cambiate e il nostro commensale è convinto che cambieranno ancora di più. Questa volta l’onda attraversa non solo i grandi, ma il capitalismo familiare, le medie imprese, le piccole, insomma l’intero modello italiano è in movimento: distretti, filiere, reti. Tra gennaio e l’autunno sono state realizzate dieci maggiori acquisizioni per 28,5 miliardi di euro: spiccano Inwit-Vodafone Towers (5,3 miliardi) o Intesa-Ubi (4 miliardi).

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Come va? So che è una domanda retorica. Per lei sarà un disastro”. “Ma che dice, non ho mai lavorato tanto”. Il banchiere d’affari incontrato in una delle scarse occasioni conviviali, è perentorio quanto sorprendente. Ma come, e la crisi? Non stiamo tutti pancia a terra cercando di nuotare? “Invece – continua il banchiere – molte cose si sono messe in moto, anche se non appaiono”. E lì a snocciolare l’inglese: ai-pi-ou (Ipo), em-and-ei (M&A), insomma prime quotazioni in Borsa, fusioni e acquisizioni, e via di questo passo. Certo, se prendiamo la media, siamo sotto il 2019, ma è colpa del lockdown totale nella prima metà dell’anno, poi le cose sono cambiate e il nostro commensale è convinto che cambieranno ancora di più. Questa volta l’onda attraversa non solo i grandi, ma il capitalismo familiare, le medie imprese, le piccole, insomma l’intero modello italiano è in movimento: distretti, filiere, reti. Tra gennaio e l’autunno sono state realizzate dieci maggiori acquisizioni per 28,5 miliardi di euro: spiccano Inwit-Vodafone Towers (5,3 miliardi) o Intesa-Ubi (4 miliardi).

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Quindici aziende familiari hanno concluso operazioni per 3,3 miliardi di euro. Fra queste si fanno notare Giuliana Albera Caprotti e Marina Caprotti, eredi del fondatore, che hanno rilevato il 30 per cento di Esselunga (1,8 miliardi); Menarini che ha speso 600 milioni per l’americana Stemline Therapeutics; Ferrero che si è comprata i biscotti inglesi Fox’s per 270 milioni; Angelini che ha rilevato ThermaCare da Gsk negli Usa per 190 milioni; Barilla che ha infornato la pasta Zara (118 milioni); Campari con la tripletta italo-francese di vini e champagne Tannico-Baron de Rothschild-Lallier (132 milioni). Leonardo ha investito quasi 180 milioni di euro per dare ulteriore stimolo alle sue competenze tecnologiche acquisendo la società elicotteristica svizzera Kopter.

 

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Il gruppo Atlantia ha incrementato la presenza in Sud America rilevando la maggioranza della società che gestisce 876 chilometri di rete autostradale tra Città del Messico e Guadalajara. Adler Pelzer, l’azienda campana di componentistica auto con un fatturato di circa 1,4 miliardi di euro, ha acquisito la divisione Acoustic di Sts con 5 stabilimenti, tre in Italia, uno in Brasile e uno in Polonia. Chi è andato in Piazza degli Affari come Amplifon, Campari, Ima, Fila, Interpump, Lu-Ve ha visto aumentare il margine operativo lordo in media del 12 per cento all’anno dal debutto sul listino (calcolo sulla media delle cinque aziende citate). Il bolognese Gvs Group, uno dei maggiori produttori mondiali di filtri e componenti per applicazioni nei settori medicale, laboratorio, automobilistico, ha raccolto 570 milioni per il 40 per cento del capitale. Le aziende familiari che hanno aperto ai privati hanno visto salire i guadagni, ma con oscillazioni più ampie. Per esempio, dall’anno di ingresso dei fondi, il margine operativo lordo di Azimut Benetti è aumentato in media del 32,3 per cento l’anno, quello della Celli del 47,8 per cento, Intercos del 21,5 per cento; altre come Flos, Duplomatic e Forno d’Asolo si sono fermate ai pur rilevanti incrementi annui dell’8,7 e del 7,1-7 per cento. Il rimescolamento del capitale è una iniezione di ricostituente, in alcuni casi vera e propria adrenalina. I fondi di private equity, cioè quelli che intervengono sulla proprietà, hanno finalizzato 65 operazioni. Ben 18 hanno visto trasferire una minoranza, con denari di investitori istituzionali al servizio di imprenditori con piani di crescita. E’ il caso di Mbe Worldwide che possiede il marchio Mail Boxes Etc (Mbe), il proprietario Graziano Fiorelli ha aperto la cassaforte a Oaktree Capital: il fondo ha rilevato il 49 per cento della società con un aumento di capitale di 100 milioni di euro. In Demetra Holding, eccellenza nel settore delle resine per ortopedia e nei biomateriali, il fondo francese Keensight Capital ha aumentato al 30 per cento la sua quota del 20 acquisita con aumento di capitale nel 2016 portando altri 60 milioni di euro nell’azienda. Il catalogo è questo e altro.  

 

 

Non è certo il migliore dei mercati possibili, al contrario. “Come molti altri settori dell’economia, anche l’intero ecosistema delle fusioni e acquisizioni, dagli imprenditori ai manager, dagli investitori istituzionali ai consulenti, ha dovuto modificare rapidamente le modalità di lavoro per garantire continuità” sottolinea Max Fiani, Partner Kpmg Corporate Finance. “Affrontare un processo di vendita in questo periodo storico può essere particolarmente gravoso. Molte operazioni annunciate sono state poi sospese, Molti operatori si sono dovuti concentrare sul quotidiano, chiudendo nel cassetto progetti di crescita inorganica; altri hanno affrontato e stanno affrontando crisi di liquidità che hanno colpito diversi fattori”. Eppur si muove, il capitale non sta mai fermo, è proprio questo che lo distingue da tutti gli altri “rapporti di produzione”. Ciò vale anche per l’Italia dove è in corso un ripensamento del paradigma produttivo che abbiamo conosciuto nell’ultimo mezzo secolo. Negli anni ’70 è entrata in crisi la grande industria stretta nella morsa tra sceicchi (le due crisi petrolifere) e operai (l’onda dei salari e dei diritti). Poi l’industria pubblica, il cosiddetto capitalismo di stato, prima imploso poi liquidato negli anni ’90 (un percorso parallelo a quello del “socialismo reale”, e non è un capriccio della storia), poi la globalizzazione e l’integrazione monetaria europea hanno scosso il tessuto di piccola e media industria, i distretti sono diventati filiere. La pandemia ha dato un colpo di maglio alla catena mondiale del valore, e le filiere a questo punto debbono anch’esse cambiare. Come? Piccole imprese crescono (debbono crescere), si alleano, si sposano, entrano in un’ampia rete, l’integrazione verticale che ha dominato il capitalismo industriale del secolo scorso si fa orizzontale. Non sono elucubrazioni astratte, la geometria del capitale è in movimento e il reale diventa razionale. Le trasformazioni sono cominciate dal basso e hanno prodotto (o per lo meno lo stanno facendo) nuove categorie; un pensiero che finora sembrava eterodosso diventa la nuova ortodossia, come l’idea che oggi per fare profitto occorre superare la vecchia concezione del profitto. E’ quel che spiega una consulente aziendale e studiosa di grande fama, Rebecca Henderson docente a Harvard, la quale ha offerto i suoi consigli a colossi come Eni, Ibm, Motorola, Nokia, Unilever. Quest’anno ha pubblicato un libro ambizioso che vuole “reimmaginare il capitalismo in un mondo che brucia”. In Italia è stampato dalla Luiss University Press sotto il titolo “Nel mondo che brucia”, con prefazione di Vincenzo Boccia, ex presidente della Confindustria e ora presidente dell’università Luiss. “Se non sopportate più le proposte degli economisti che sembrano offrire una poco allettante scelta tra mercati selvaggi e collettivismo d’altri tempi, dovete leggere questo libro”, ha scritto Arthur Brooks, presidente emerito dell’American Enterprise Institute, pensatoio conservatore. E una nuova star accademico-mediatica, l’economista turco-americano Daron Amoceglu che insieme a James Robinson ci offre l’ultima versione del tramonto delle nazioni un filone di successo da destra a sinistra, da Owald Spengler a David Landes o Paul Kennedy , parla di “una chiamata alle armi” per la economia di mercato, perché “Rebecca Henderson sostiene che il mercato possa essere riformato senza danneggiare le corporation”.

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Il libro è stato scritto prima della pandemia, frutto degli anni nei quali ha tenuto un corso a Harvard intitolato “Reimmaginare il capitalismo”. L’autrice conosce la grande industria internazionale, con una esperienza a vasto raggio, perché ha gestito cambiamenti tecnologici traumatici, alla Kodak quando non c’era più bisogno di pellicole o alla Nokia quando il trionfo di Apple l’ha messa in ginocchio. Oggi siamo a un passaggio ancor più radicale che il Covid-19 ha reso drammatico. Nell’insieme dei precetti che si possono estrarre dalla narrazione della Henderson i più generali (nient’affatto generici) si sposano con quelli del Gruppo dei Trenta, l’agenda Draghi per capirci.

 

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In primo luogo lo sguardo lungo oltre il breve termine, sia per la singola azienda, non importa quanto grande, sia per i governi. In secondo luogo accettare il cambiamento, anzi provare ad anticiparlo. Terzo, la cooperazione tra le stesse imprese senza per questo ridurre la concorrenza (al contrario, si può rendere il mercato più aperto e quindi più equo possibile), e la collaborazione con le istituzioni pubbliche che dovrebbero favorire la grande trasformazione, non bloccarla salvando il vecchio e castrando il nuovo. Un sistema pubblico inclusivo non collusivo, che sostiene l’innovazione, non gli interessi costituiti siano essi quelli degli oligopoli, delle corporazioni, dei kombinat politico-industriali. Sia Rebecca Henderson sia il documento Draghi parlano di “fallimenti di mercato” (espressione che fa accapponare la pelle ai liberisti), ma non fallimenti del mercato “la più grande innovazione della storia” secondo l’economista americana. Fondamentale è il ruolo della finanza per incanalare le risorse non infinite, ma certo ingenti, verso il nuovo capitalismo che si dà ancora un altro volto e rinasce dalla crisi, un po’ Proteo un po’ Fenice. Ma cosa significa tutto ciò nel caso italiano? Il rapporto dei Trenta insiste nel dare la priorità alle piccole e medie imprese, aiutandole a consolidarsi. E questo è il problema numero uno per la manifattura made in Italy che è riuscita a resistere, pur con morti e feriti, anche allo tsunami cinese, ma resta frantumata, dispersa, smarrita di fronte alla velocità e profondità della “distruzione creatrice”.

 

Negli anni si è via via riorganizzata, ha faticato a strutturarsi nei distretti e a sistemarsi in filiera, e adesso deve trovare ancora un nuovo modo di stare al mondo, cioè sul mercato. La professoressa Henderson guarda soprattutto alle grandi corporation, è questa la sua esperienza. Tuttavia oggi più che mai l’innovazione non nasce soltanto nei pensatoi dei giganti. Basti pensare alla corsa al vaccino contro il corona virus: la Pfizer ha messo a frutto le ricerche di una impresa-laboratorio tedesca, la BioOnTech, mentre AstraZeneca si basa sulla cooperazione tra l’istituto Jennings di Oxford e una piccola azienda italiana. Quel che accomuna grande e piccolo è la capacità di generare nuove opportunità. C’è una gran varietà di strumenti finanziari in grado di scommettere sui settori del futuro prossimo venturo, purché si voglia cambiare. E qui entra in campo la volontà degli imprenditori e di chi li rappresenta. Fino a oggi hanno chiesto e continuano a chiedere. Non è chiaro in che modo le organizzazioni di categoria aiutano i loro associati a entrare nel nuovo carosello del capitale, ciò vale per la manifattura, come per il commercio, il turismo i servizi. Per lo più abbiamo sentito lobby e corporazioni che alimentano nell’opinione pubblica la pericolosa illusione che tutto possa tornare come prima. Non sarà così. La dimostrazione più eloquente viene non dai punti deboli, ma dai punti forti dell’industria italiana, dalla meccanica che rappresenta la voce più importante dell’export e in particolare dall’automotive dove l’Italia è seconda solo alla Germania. La pandemia ha messo a terra l’intero comparto e la ripresa sarà guidata da un nuovo paradigma, la cosiddetta “auto verde”, come spiega Paolo Scudieri, l’imprenditore campano presidente di Adler, l’azienda di famiglia, e dell’Anfia, l’associazione di settore. Ovviamente solo una minoranza degli autoveicoli diventerà a trazione tutta elettrica (oggi sono appena il 3 per cento, nei prossimi anni potranno arrivare al massimo al 10 per cento), ma quel che sta accadendo è “la nascita di un sistema industriale parallelo”. La batteria diventerà più importante del motore, mentre con la guida autonoma l’elettronica, l’informatica, i servizi sono quasi tutto. Se un fornitore oggi è specializzato in cambi continuerà a produrre sistemi che differenziano la velocità, ma lo farà in modo diverso, tenendo conto di tutte le variabili ambientali: le curve, gli ostacoli, i dossi, le altre auto. Il governo ha concesso incentivi alla riconversione e alla concentrazione destinati alle piccole imprese. E anche la Cassa depositi e prestiti, fuori dai riflettori puntati su che cosa farà in Autostrade, in Tim o nella rete internet (insomma nel grande risiko taliano), lavora per favorire aggregazioni, start up e la modernizzazione delle filiere produttive. Ciò piace molto al nostro banchiere d’affari, la considera una opportunità per tutti, a cominciare da chi fa il suo mestiere. Tuttavia non è stato ancora trovato il punto di equilibrio tra stato e mercato, tra incentivi pubblici e movimento che parte dal basso. Il dibattito resta concentrato sulla conservazione (torniamo come prima, salviamo quel che c’è) e non sulla trasformazione.  

 

 

A chi andranno le risorse del piano per la ripresa? Al nuovo capitalismo con tutti i suoi vantaggi dei quali parla Rebecca Henderson, oppure un po’ qua o un po’ là? Da quel che si capisce il governo italiano sta prendendo la seconda strada. E’ vero che la fetta più consistente sarebbe destinata alle energie rinnovabili e al digitale, ma la soluzione verso la quale ci si orienta è utilizzare una parte consistente dei prestiti (127 miliardi di euro da restituire in dieci anni, mentre altri 82 miliardi sono erogazioni a fondo perduto) per coprire spese comunque necessarie, progetti rimasti nei cassetti, oppure assunzioni e nuovi interventi strutturali nella salute, evitando così di emettere nuovo debito e di fare ricorso al vituperato Mes anche se in teoria sarebbero a disposizione 34 miliardi da destinare direttamente o indirettamente alla sanità. E’ una scelta che ha una sua dose di prudenza visto che il debito pubblico ha già fatto un balzo di oltre 200 nuovi miliardi di euro. C’è, però, anche un’ampia quota di opportunismo mescolato a pregiudizio ideologico (come nel caso del Mes). Se prevalesse la conservazione, sarebbe una gigantesca occasione perduta, non la prima nella storia dell’Italia contemporanea, ma senza dubbio la più colossale e pericolosa perché verremmo travolti dalla valanga del cambiamento.

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