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Il Recovery dev'essere l'occasione per accorciare il gap di produttività rispetto al resto d’Europa

Guglielmo Barone e Carlo Stagnaro

E’ l’ora di una riforma strutturale: mettere i dati a disposizione dei ricercatori per valutare le policy

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Le risorse del programma Next Generation Eu rappresentano per l’Italia una doppia sfida: non solo finanziare la ripresa post Covid, ma anche (e soprattutto) accorciare il gap di produttività rispetto al resto d’Europa. L’enormità della posta in gioco rischia di far passare in secondo piano un tema cruciale: l’iniezione di denaro nell’economia è al più una condizione necessaria per la crescita, di certo non sufficiente. L’intervento di Fabrizio Barca e Mario Monti sul Corriere del 13 dicembre rappresenta un utile punto di partenza per una discussione più ampia. Barca e Monti suggeriscono di articolare la progettualità del Recovery plan secondo il “linguaggio dei risultati” (cioè la definizione dei “risultati attesi, misurabili e verificabili”) e la “grammatica della gestione” (a partire dalla rigenerazione della Pa). A nostro avviso, occorre aggiungere un tassello: quella che potremmo chiamare “ortografia della valutazione”. Vale a dire: disegnare i nuovi interventi tenendo conto della migliore evidenza disponibile sulle esperienze passate; e aprirsi alla valutazione, anche da parte di terzi, di quelli in itinere. 

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Le risorse del programma Next Generation Eu rappresentano per l’Italia una doppia sfida: non solo finanziare la ripresa post Covid, ma anche (e soprattutto) accorciare il gap di produttività rispetto al resto d’Europa. L’enormità della posta in gioco rischia di far passare in secondo piano un tema cruciale: l’iniezione di denaro nell’economia è al più una condizione necessaria per la crescita, di certo non sufficiente. L’intervento di Fabrizio Barca e Mario Monti sul Corriere del 13 dicembre rappresenta un utile punto di partenza per una discussione più ampia. Barca e Monti suggeriscono di articolare la progettualità del Recovery plan secondo il “linguaggio dei risultati” (cioè la definizione dei “risultati attesi, misurabili e verificabili”) e la “grammatica della gestione” (a partire dalla rigenerazione della Pa). A nostro avviso, occorre aggiungere un tassello: quella che potremmo chiamare “ortografia della valutazione”. Vale a dire: disegnare i nuovi interventi tenendo conto della migliore evidenza disponibile sulle esperienze passate; e aprirsi alla valutazione, anche da parte di terzi, di quelli in itinere. 

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Nel paese, le competenze valutative non mancano. Una palestra emblematica è stata quella dell’analisi delle politiche per il sud: abbiamo appreso che poche politiche hanno funzionato (la prima Cassa del Mezzogiorno che indirizzava gli investimenti sulla base di valutazioni tecniche anziché di scelte clientelari), molte iniziative sono state inefficaci,  spesso la spesa ha alimentato corruzione e criminalità organizzata, un rischio che oggi va assolutamente scongiurato. 

 

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In prospettiva, i programmi di politica economica che vedranno la luce dovranno essere valutati con estrema cura. Ma una valutazione seria, moderna, coerente con le migliori prassi, e adeguata all’enorme sforzo economico in ballo, necessita di alcuni requisiti imprescindibili, tra loro collegati. Primo, occorre stabilire quale sia il vero obiettivo dell’intervento, tenendo sempre presente la regola aurea che, in genere, uno strumento può permettere di raggiungere un solo obiettivo. Per esempio, la decontribuzione del costo del lavoro al Mazzogiorno vuole accrescere l’occupazione o aiutare le imprese a diventare più produttive? Restare nell’ambiguità è un trucco per non legarsi le mani. Secondo, poiché anche i migliori esercizi valutativi sulle politiche pubbliche italiane scontano il limite di basarsi su dati a volte parziali e frammentari (quelli più adatti non erano stati raccolti al momento opportuno), è necessario produrre ex ante tutte le informazioni necessarie.  Terzo, questi dati, più quelli già in possesso della Pa, devono essere rilasciati in formato open. Chi scrive è tra coloro (molti) che hanno trascorso giornate intere a chiedere a un qualche ministero l’accesso a dati (in teoria) pubblici, a volte già pubblicati su internet ma in modo non adatto per la successiva elaborazione. Questo non è ammissibile. Più aumenta il numero degli studiosi che possono cimentarsi in tentativi di valutazione, più il governo potrà contare su punti di vista, terzi e alternativi tra di loro, che possano aiutare a indirizzare le politiche. Si chiama, semplicemente, accountability. Libero accesso all’informazione significa anche chiarezza su quale parte della Pa ha la titolarità dei dati ed è quindi legittimata alla loro diffusione: spesso un labirinto nel quale il singolo ricercatore non è in grado di orientarsi. Quarto, prima di partire a spron battuto con qualche iniziativa, occorre tenere in considerazione l’ipotesi di realizzare esperimenti controllati, su piccola scala, sulla base delle migliori prassi internazionali (tra l’altro premiate l’anno scorso con il Nobel per l’economia).

 

Più in generale, questi punti restano validi anche oltre gli sforzi legati al Recovery plan. Sul tema dell’accesso ai dati, per esempio: molte informazioni sulla pandemia sono state inizialmente tenute nascoste, e poi condivise solo con pochi e fortunati beneficiari; questo ha privato non solo gli studiosi di materiale prezioso, ma anche il governo di input potenzialmente fondamentali per migliorare la propria gestione dell’emergenza. Solo adesso alcuni dati sono stati messi a disposizione di tutti. In altri casi ancora, i dati esistono ma vengono custoditi gelosamente: l’Acquirente Unico possiede informazioni sui consumi elettrici che, se opportunamente anonimizzati, consentirebbero di capire molto sulle scelte di consumo di famiglie e imprese e sull’andamento dell’economia. Ma questi dati sono indisponibili: diversi economisti hanno tempo fa rivolto un appello all’Acquirente e all’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente, ma non hanno ricevuto alcuna risposta. 

 

Mettere i dati a disposizione degli studiosi non significa fare un favore al mondo della ricerca (che pure sarebbe un fine lodevole in sé). E non significa neppure esporre i governi a critiche indesiderate e magari pretestuose. Significa consentire al paese di mettere a sistema le migliori intelligenze e professionalità alla ricerca di modi per migliorare la gestione della cosa comune. E’ una delle tante possibili riforme a costo zero: se non ora, quando? 

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