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Il vero problema delle nostre banche è uno: il rischio Italia

Stefano Cingolani

Fusioni, progetti, cambi. Nell’anno pandemico, la finanza riscopre che la debolezza degli istituti di credito italiani non è endogena ma è nella politica

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C’era una volta la foresta pietrificata. Immobile, rigido, inefficiente, provinciale, il sistema bancario italiano per lo più in mano allo stato, non era cambiato molto fino ai primi anni 90. Da allora in poi è tutto un work in progress e i lavori sono più che mai in corso. In questo anno nerissimo, Intesa Sanpaolo ha assorbito Ubi la quarta banca italiana. La Unicredit, unica considerata “sistemica” dalla Bce, cambia vertice e strategia. Bper (la ex Popolare dell’Emilia-Romagna, che fa capo alla Unipol) si espande anche grazie agli sportelli che prenderà dalla Ubi. Il Crédit Agricole, uno dei principali gruppi in Italia lancia un’offerta sul Credito Valtellinese. Nel ventre di Mediobanca e delle Assicurazioni Generali crescono Che Banca e Banca Generali. Le Poste sono sempre più una piattaforma bancario-assicurativa. Il Monte dei Paschi di Siena, pecora nera dello scorso decennio, si accaserà con un partito più solido e ricco, forse Unicredit, forse il Banco Bpm numero tre in classifica, nato dalla fusione tra la Popolare di Milano e quella di Verona o forse la Bper. La peggiore soluzione sarebbe la troika dei deboli, come vorrebbero i grillini che guardano a Mps con Carige e Popolare di Bari. Mediolanum e Fineco sono tra le più solide d’Europa, due vere storie di successo. Fioriscono le banche online e quelle che hanno un profilo definito, che operano solo in Borsa, o sono legate alle professioni, alle piccole e medie imprese. Né benefattori né bankster, i banchieri devono far bene il loro mestiere.

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C’era una volta la foresta pietrificata. Immobile, rigido, inefficiente, provinciale, il sistema bancario italiano per lo più in mano allo stato, non era cambiato molto fino ai primi anni 90. Da allora in poi è tutto un work in progress e i lavori sono più che mai in corso. In questo anno nerissimo, Intesa Sanpaolo ha assorbito Ubi la quarta banca italiana. La Unicredit, unica considerata “sistemica” dalla Bce, cambia vertice e strategia. Bper (la ex Popolare dell’Emilia-Romagna, che fa capo alla Unipol) si espande anche grazie agli sportelli che prenderà dalla Ubi. Il Crédit Agricole, uno dei principali gruppi in Italia lancia un’offerta sul Credito Valtellinese. Nel ventre di Mediobanca e delle Assicurazioni Generali crescono Che Banca e Banca Generali. Le Poste sono sempre più una piattaforma bancario-assicurativa. Il Monte dei Paschi di Siena, pecora nera dello scorso decennio, si accaserà con un partito più solido e ricco, forse Unicredit, forse il Banco Bpm numero tre in classifica, nato dalla fusione tra la Popolare di Milano e quella di Verona o forse la Bper. La peggiore soluzione sarebbe la troika dei deboli, come vorrebbero i grillini che guardano a Mps con Carige e Popolare di Bari. Mediolanum e Fineco sono tra le più solide d’Europa, due vere storie di successo. Fioriscono le banche online e quelle che hanno un profilo definito, che operano solo in Borsa, o sono legate alle professioni, alle piccole e medie imprese. Né benefattori né bankster, i banchieri devono far bene il loro mestiere.

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Fusioni, acquisizioni, consolidamento sono termini esoterici, ma si tratta di mettere insieme uomini non algoritmi. La governance preoccupa anche le autorità di vigilanza e della banca centrale europea: oggi è sempre più essenziale che la gestione sia efficiente e trasparente, affidata a professionisti competenti e di valore. Tra il 2007 e il 2019, nonostante la doppia recessione che ha colpito l’economia italiana, il rapporto tra il capitale di migliore qualità e il complesso delle attività ponderate per il rischio (in termini tecnici Cet1 ratio) è quasi raddoppiato, arrivando in media al 14 per cento. Il contrario di quel che raccontano i nazional-populisti. Nei primi sei mesi di quest’anno è cresciuto ulteriormente, di quasi un punto percentuale, perché gli utili sono serviti ad aumentare il fieno in cascina anziché il conto corrente dei singoli azionisti. “La crisi, tuttavia, ha iniziato a riflettersi sul rendimento del capitale e delle riserve, notevolmente diminuito nel primo semestre a causa soprattutto delle maggiori rettifiche su crediti – avverte la Banca d’Italia – La capacità degli intermediari di sostenere il proprio livello di patrimonializzazione attraverso la redditività resterà sotto pressione anche nel prossimo futuro”. Il prossimo anno, dunque, vedremo altre fusioni e acquisizioni, perché il processo di concentrazione che la pandemia non ha fermato verrà accelerato proprio dalla crisi provocata dal Covid-19. L’aumento dei crediti deteriorati e l’aumento dei titoli di debito sovrano nei loro portafogli, costringeranno le banche a rafforzarsi per linee interne o esterne. La rivoluzione digitale, che in Italia è arrivata in ritardo, farà un nuovo balzo avanti. Si ridurranno ancora filiali, sportelli e dipendenti. Il sistema ha resistito all’onda d’urto della pandemia, ma più che di resistenza o resilienza bisogna parlare di un cambiamento necessario e salutare. Tutto va bene madama la marchesa? Nient’affatto, ma bisogna accelerare il processo di concentrazione, selezione, specializzazione. Al governo spetta fornire gli strumenti affinché ciò avvenga nel modo migliore.

 

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Né il ritorno allo stato banchiere, né un dirigismo pianificatorio, ma incentivi al consolidamento, ammortizzatori sociali per affrontare la ricaduta sull’occupazione, strumenti per alleggerire le banche dai fardelli che ancora le opprimono, compresi i titoli di stato. Una bad bank per gestire i crediti deteriorati, cavallo di battaglia di Ignazio Visco, appare oggi l’unica soluzione sistemica. Le banche italiane, si suol dire all’estero, hanno un problema che non potranno mai risolvere: il rischio Italia (debito, bassa crescita, quindi non performing loans). E’ vero, tuttavia, dopo le tempeste degli ultimi anni, hanno imparato ad aprire l’ombrello. Per capire a che punto siamo vale la pena ricordare per sommi capi il percorso compiuto da quando la legge Amato-Carli nel lontano 30 luglio 1990 cominciò a scongelare il sistema, trasformando le banche pubbliche e le Casse di risparmio in società per azioni aventi come principale azionista le Fondazioni di origine bancaria. Nascono con aggregazioni successive i due più grandi gruppi: Unicredit mettendo insieme il Credito Italiano, il Credito Romagnolo più una serie di casse minori, e Intesa grazie ai matrimoni tra l’Ambroveneto, la Cassa di risparmio delle province lombarde, la Banca Commerciale.

 

Alla svolta del nuovo secolo l’euro lancia una sfida sovranazionale. In quegli anni sono le banche francesi, spagnole e olandesi a varcare le Alpi e le scalate del 2005 diventano un importante punto di svolta. Bnp-Paribas conquista la Bnl, l’Antonveneta va alla olandese Abn Amro che poco dopo viene acquisita dal Banco di Santander, prima banca spagnola e una delle più forti d’Europa. E’ l’estate dei furbetti, così chiamata per il fallito tentativo di scalare l’Antonveneta da parte di un’improbabile cordata di finanzieri, immobiliaristi, banchieri lodigiani che penetra persino nella fortezza di Via Solferino (alias Corriere della Sera). Intanto la Unipol, la compagnia delle cooperative rosse, lancia la sua offerta sulla Bnl. Scoppia una “guerra per banche” che travolge anche la Banca d’Italia. Il governatore Antonio Fazio si dimette e al suo posto viene nominato Mario Draghi il quale introduce una svolta liberale: niente più autorizzazione preventiva, la Banca centrale nazionale vigila insieme alla Bce, ma sta alle aziende creditizie e al mercato decidere. Dopo meno di due anni, Intesa si fonde con il Sanpaolo, Unicredit con Capitalia e Mps prende Antonveneta pur non avendo capitale sufficiente e di qui cominciano i guai non ancora risolti. La liberalizzazione in salsa europea spinge la Unicredit, guidata da Alessandro Profumo, a perseguire un obiettivo ambizioso: varcare i confini e penetrare nella Mitteleuropa. Prima in Baviera nel 2005 con la HypoVereinsbank, poi in Austria con la Bank of Austria. Mai una banca italiana aveva osato tanto. Una mossa ardita che costa cara quando nel 2008-2009 arriva la crisi finanziaria mondiale. Unicredit viene costretta a varare un consistente aumento di capitale, il primo di una serie, per assorbire le perdite. E viene alla luce il limite della costruzione europea che a tutt’oggi non è stato superato: non esiste un vero mercato unico, ogni paese vuole difendere da solo il proprio risparmio, le fusioni trans-frontaliere vengono penalizzate, quindi scoraggiate, fatto sta che non c’è un campione europeo in grado di tenere testa ai giganti americani, mentre la crisi alimenta gli spiriti nazionalisti e protezionisti. Gli aumenti di capitale per far fronte alle nuove sfide, trasformano la maggior parte delle grandi banche italiane in public company, il peso delle fondazioni si riduce quasi ovunque, le banche popolari diventano società per azioni ed emergono i guai di gestioni per lo più clientelari e parrocchiali, fatte per gli amici degli amici: le banche venete, le banchette del Centro Italia, la Carige, la Popolare di Bari sono spartiti diversi con lo stesso leitmotiv. Viene fatta una gran pulizia, pagata per la verità dai contribuenti più che dagli azionisti e dai clienti, anche se resta una zona d’ombra: una ventina di piccole banche per lo più del sud che stentano a stare in piedi da sole. Questo era lo scenario fino al 2019.

 

La terribile crisi di quest’anno non ha provocato sfracelli bancari, ma la ricaduta economica del Covid-19 sarà pesante. Ignazio Visco, parlando alla giornata del risparmio, il 30 ottobre scorso, ha invitato le banche a “farsi trovare preparate per finanziare la ripresa; va quindi mantenuta particolare attenzione tanto alla loro capacità patrimoniale quanto alla qualità del credito erogato”. Il risparmio non manca, al contrario di quel che racconta la propaganda populista: “Nei dodici mesi terminanti a settembre i depositi delle famiglie sono cresciuti del 5,6 per cento (quasi 50 miliardi), quelli delle imprese del 24,4 (70 miliardi). In quest’ultimo caso l’incremento è in buona parte riconducibile alle misure governative di sostegno al credito, che hanno consentito alle aziende di accumulare fondi necessari per soddisfare le esigenze di liquidità”, ha detto il governatore della Banca d’Italia. L’incognita più angosciosa riguarda i prestiti che non verranno rimborsati per colpa della recessione.

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Secondo gli economisti di Palazzo Koch, la quota dei debiti finanziari facente capo ai prenditori più rischiosi potrebbe superare il 20 per cento, rispetto al 13 di prima della pandemia. La banca d’affari Equita calcola che i crediti deteriorati saliranno per altri 22 miliardi di euro; i prestiti ad alto rischio raggiungeranno i 184 miliardi di euro, cioè il 13 per cento del portafoglio prestiti complessivo, quindi le banche dovranno accantonare altri 12 miliardi di euro. Tutte le banche sono appesantite anche dai titoli di stato, nonostante la Bce sia l’acquirente più attivo sul mercato, e non solo in ultima istanza. Le banche italiane hanno in pancia Btp per oltre 400 miliardi, e hanno già superato il massimo degli ultimi vent’anni. Debito buono, ma anche debito cattivo, per usare la distinzione fatta da Mario Draghi. Il rischio è che il debito cattivo spiazzi quello buono e le banche, nel timore di esporsi troppo, riducano il credito. Oggi il denaro non costa nulla e i buoni del Tesoro non sono un problema, anzi le aziende vengono pagate per prendere i quattrini e li impiegano con un rendimento dell’uno-due per cento. Ma non durerà, guai a vedere solo i tassi di oggi e non quelli di domani. E’ la sfida macroeconomica principale, riguarda sia la Bce sia la politica economica del governo italiano. Spingendo sulla crescita del reddito anziché sulla sua redistribuzione anticipata, si può stabilizzare il debito pubblico rispetto al pil, mantenere il paese solvibile e il sistema finanziario liquido. E’ un percorso da funamboli; affinché il filo regga, le autorità monetarie, il ministro dell’Economia e il sistema bancario dovranno collaborare. Non si tratta di abolire il divorzio demonizzato dai nazional-populisti per costringere le banche a comprare il debito pubblico emesso senza limiti dal Tesoro, ma di partecipare, direbbero i matematici, a un gioco cooperativo.

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